È lite sui numeri: "Conta chi ha sintomi". Altri tre anziani morti ma i guariti sono 45

Ricciardi (Oms): "650 test positivi, ma prendiamo in esame i ricoverati: sono 290". Migliora il "paziente uno". Però non respira in autonomia

È lite sui numeri: "Conta chi ha sintomi". Altri tre anziani morti ma i guariti sono 45

A una settimana esatta dall'esplosione in Italia dell'allarme da coronavirus, tocca rinunciare a una delle poche certezze: la possibilità, per orientarsi nel diluvio di emozioni e di rimedi, di affidarsi ai numeri, alla fredda oggettività delle statistiche. Ieri si ha la prova ufficiale che anche i numeri sui contagi sono diventati opinabili, e possono essere tirati di qua o di là. Nel giro di poche ore cifre assai diverse vengono fornite da una delle massime autorità sanitarie e dalla Protezione civile. Walter Ricciardi, rappresentante italiano all'Organizzazione mondiale della sanità, in una intervista al Corriere dice che i «casi verificati» sono circa 190, tutti gli altri potrebbero allo stato essere dei «falsi positivi» causati dalla approssimazione con cui vengono realizzati i tamponi. Nel pomeriggio il capo della protezione civile Angelo Borrelli parla invece di 650 contagiati. Oltre il triplo. È lo sgradevole record che ha catapultato l'Italia alla testa dei Paesi occidentali a rischio epidemia.

Dietro alla guerra delle cifre, è facile individuare diverse scuole di pensiero sull'approccio che il Paese, le istituzioni e i suoi abitanti devono tenere di fronte alla minaccia del Covid-19. Di fronte a un virus che secondo gli specialisti di modelli matematici appare in grado di infettare un terzo della popolazione mondiale, molti specialisti dubitano che abbia senso censire come infetti tutti i cittadini che risultano positivi al test, anche se non presentano i sintomi o li presentano in forma assai blanda. Per Ricciardi i casi statisticamente significativi devono essere quelli che richiedono l'intervento dei medici e degli ospedali. Borrelli, comprensibilmente, si aggrappa invece al dato complessivo, anche perché è l'unico che può aiutare a fare previsioni sulla distribuzione dell'epidemia nelle varie regioni e preparare così le strutture per fronteggiare l'emergenza. Ma nel frattempo il balletto di numeri disorienta il pubblico e alimenta la divisione della politica tra chi minimizza, in nome dell'immagine del Paese, e chi soffia sul fuoco.

In questa situazione confusa, qualche certezza salta comunque fuori. Alcune confortanti, come l'aumento del numero dei guariti: 45, e il numero sarebbe assai più alto se si potessero conteggiare tutti coloro che il coronavirus lo hanno contratto e smaltito senza neanche accorgersene. Altre più allarmanti, come il grido di dolore che arriva dall'ospedale di Cremona, dove sono approdati 81 dei malati provenienti dal focolaio di Codogno. Diciotto di questi sono stati ricoverati in terapia intensiva, saturando la disponibilità di posti letto e rendendo necessario il trasferimento di una parte di pazienti in altri ospedali lombardi. Cremona è un ospedale piccolo, ma è il primo esempio di un nemico con cui l'emergenza rischia di dover fare i conti, ovvero la tenuta del sistema sanitario nel caso di un forte aumento dei ricoveri. Un tenuta ancora più a rischio se, come già accaduto a Codogno, a venire infettato fosse anche il personale sanitario. Allarmi in questo senso sono venuti dalla zona di Bergamo, sede di un microfocolaio.

Ma a Milano ieri è risultato positivo un medico anestesista in servizio all'ospedale San Paolo, dove ufficialmente non ci sono malati di coronavirus. In attesa di ricostruire gli spostamenti del medico nella sua vita privata, si fa largo l'ipotesi che pazienti positivi fossero già presenti in ospedale prima che sabato scorso scattasse l'allarme generale. E ricostruire i contatti avvenuti nel frattempo potrebbe diventare problematico.

A rendere potenzialmente critico il tema della ricettività degli ospedali è anche il periodo non breve di degenza che gli ammalati con sintomi più gravi stanno affrontando. Il «paziente uno», il 38enne di Codogno che il 15 avvertì i primi sintomi e venne ricoverato il 18, è tutt'ora ricoverato in terapia intensiva al San Matteo di Pavia. Nella giornata di ieri si era sparsa la notizia che avesse ripreso a respirare da solo, che però è stata smentita. Ci sono, dicono i vertici dell'ospedale pavese, segni di miglioramento.

Ma che a dieci giorni dal ricovero l'uomo debba essere ancora attaccato a una macchina dice che il virus non è sempre facile da sconfiggere: neanche in casi in cui la vittima non è un anziano debilitato ma un giovane in piena forma.

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