A rischio la diga "italiana" i nostri bersaglieri nel mirino

Sono 450 i soldati che proteggono l'argine a Mosul. Ma negli ultimi 15 giorni hanno subito tre attacchi

A rischio la diga "italiana" i nostri bersaglieri nel mirino

Tre attacchi con lanci di razzi nelle ultime due settimane contro l'area della diga di Mosul presidiata da 450 soldati italiani. I nostri soldati della task force Presidium sono ad una ventina di chilometri dal fronte delle bandiere nere attorno alla «capitale» irachena del Califfo. I primi razzi sono stati lanciati all'inizio di ottobre. «Il più vicino è esploso a 300 metri» ha rivelato una fonte militare del Giornale. Il secondo attacco con 2 o 3 razzi è scattato sabato scorso, ma ha colpito la zona residenziale vicino alla diga. Un altro ordigno è stato lanciato negli ultimi giorni, ma a tre chilometri dalle nostre postazioni.

Da ieri tutto il fronte si sta scaldando dopo l'inizio dell'attacco per liberare Mosul, che durerà settimane o mesi. I bersaglieri italiani devono solo presidiare la diga, ma sono le truppe «crociate» più vicine alla «capitale» dello Stato islamico. Un bersaglio allettante dal punto di vista simbolico e fisso, senza possibilità di manovra, dovendo proteggere il personale della ditta Trevi, che si è garantita l'appalto per rimettere in sesto la decrepita struttura. La conferma viene da Roma. Il mandato dei soldati italiani «è molto chiaro: assicurare un dispositivo di difesa statica in prossimità della diga».

Il dispiegamento di circa 500 uomini è completato. Il grosso è composto dai bersaglieri del 6° reggimento della brigata Aosta di stanza a Trapani. La task force può contare anche sui mortai da 120 millimetri utilizzati contro i talebani in Afghanistan. Un particolare sistema radar segnala il lancio ostile in arrivo e suona l'allarme, anche se i tempi di impatto sono molto stretti. Sabato la Forza di reazione rapida ha garantito la protezione dei circa 70 operai e tecnici italiani presenti corsi nei rifugi. I razzi di 122 millimetri, Bm 21, l'evoluzione dei famigerati «organi di Stalin» della seconda guerra mondiale, hanno colpito la zona residenziale di al Muhandisin, lontana dagli italiani. In questo caso non sono state individuate le rampe di lancio per bombardarle con i caccia. Al contrario del primo attacco, che comunque non ha provocato danni o feriti, anche se è arrivato più vicino. La Task force italiana schiera pure il cosiddetto Faq, operatori speciali, in grado di richiedere l'appoggio aereo. Dopo il primo lancio di razzi i caccia bombardieri Usa fatti intervenire dai nostri soldati hanno distrutto le rampe di lancio ad una quindicina di chilometri.

«Colpire gli infedeli e soprattutto i militari della Coalizione è un obiettivo prioritario per lo Stato Islamico (anche in termini propagandistici) - ha scritto Analisi Difesa, giornale specializzato on line - L'unico bersaglio fisso, di grandi proporzioni e a due passi dalla prima linea offerto ai jihadisti è costituito proprio dalla base italiana alla diga di Mosul».

Nei piani della grande offensiva per liberare la città irachena è previsto l'accerchiamento e l'interruzione delle vie di comunicazione e rifornimento da ovest verso la Siria e la vicina roccaforte delle bandiere nere di Tal Afar. Un'arteria strategica che passa a poche decine di chilometri dalla diga. Non a caso i nostri droni che decollano dal Kuwait hanno battuto a lungo la zona di Tal Afar individuando obiettivi da far colpire agli aerei alleati. I 4 caccia italiani impiegati sul teatro iracheno possono solo scattare fotografie e non bombardare.

L'attacco finale a Mosul è iniziato da Bashiqa con l'avanzata dei curdi da nord est per conquistare alcuni villaggi a pochi chilometri dalla città. Gli stessi miliziani addestrati dai turchi e dai soldati italiani della missione Prima Parthica di base a Erbil. A turno con i tedeschi abbiamo il comando di tutto il programma di addestramento europeo nel nord dell'Iraq visto come fumo negli occhi dalle bandiere nere. Nell'aeroporto militare di Erbil sono schierati pure gli elicotteri da trasporto NH 90 e quelli d'attacco Mangusta.

I fanti elitrasportati del 66° reggimento Trieste, unità veterana dell'Afghanistan, hanno il compito di recuperare, anche sotto il fuoco se necessario, i militari alleati rimasti tagliati fuori sulla prima linea dell'attacco a Mosul.

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