"Come a Roma 37 anni fa: vidi paura e morte"

Parla Pacifici, ex presidente della Comunità romana: «Ucciso un bimbo, ferito mio padre»

"Come a Roma 37 anni fa: vidi paura e morte"

Era il 9 ottobre 1982. Sono passati 37 anni esatti dal più grave attentato antisemita della storia italiana, l'attacco che davanti alla sinagoga di Roma uccise il piccolo Stefano Gaj Taché, 2 anni. Anche quel giorno gli ebrei furono colpiti in un giorno di preghiera, in quel caso da un commando palestinese. Riccardo Pacifici, più tardi sarebbe diventato presidente della Comunità romana, quel 9 ottobre c'era.

Pacifici, un altro attacco agli ebrei che pregano?

«Era un giorno di festa, che concludeva il ciclo di tutte le feste ebraiche, le stesse che ora festeggiamo: capodanno, Kippur, ricordo che Israele ha subito una guerra dai Paesi arabi per Kippur. Giorni di preghiera, di vulnerabiltà anche. Paradossalmente sono i giorni in cui dobbiamo stare più attenti. Anche noi oggi pregavamo, io ero sereno perché fuori dalla mia sinagoga c'era una camionetta, due soldati, il servizio d'ordine, i volontari, questo deterrente. In Italia è così, anche in Germania, ma non è scontato. In Francia per esempio non hanno questa garanzia».

Cosa ricorda di quel giorno romano di 37 anni fa?

«Il tempio era gremito di bambini, era il giorno in cui a Roma, solo a Roma, si dà loro la benedizione. Avevo 18 anni, mio padre venne ferito e restò tre mesi fra la vita e la morte, gli avevano messo un lenzuolo bianco ed era accanto al piccolo Stefano».

Salvato per miracolo.

«Il rabbino Toaff, che non era nella sinagoga centrale, si fece la strada a piedi trafelato e andò nella camera mortuaria, dove era anche Stefano. A mio padre stavano dando l'ultima benedizione e lui prese per la giacca i medici, che erano intenti a curare decine e decine di feriti. E trovò un medico bravissimo che gli praticò una tracheotomia. La bomba gli aveva colpito la gola, un occhio, l'addome. Gli salvò la vita, ma la sua vita non fu più la stessa. E nemmeno la mia».

Come si arrivò a quel giorno?

«Quel 9 ottobre arrivò in una fase in cui l'opinione pubblica chiedeva conto a Israele di aver difeso i propri confini - io ero stato in un kibbutz l'estate prima, ricordo i missili delle forze palestinesi, erano i famosi katiuscia - e si chiedeva conto agli ebrei di questa operazione. E Arafat, che aveva un mandato di cattura internazionale, fu ricevuto con tutti gli onori in Italia, anche dal Papa, e dal presidente Pertini».

Spadolini non lo fece.

«L'unico che si rifiutò di farlo fu il presidente del Consiglio, in quel clima di assedio in cui tutta la sinistra chiedeva conto non solo a Israele ma agli ebrei, di queste cose. Su Repubblica e sul Messaggero comparvero appelli perché Israele si ritirasse e affinché gli ebrei si dissociassero. Davide discolpati si diceva. L'apice fu una manifestazione sindacale in cui una bara vuota fu deposta davanti alla sinagoga. Purtroppo sarebbe stata riempita».

Analogie fra Roma e Halle?

«Non nella matrice, qui di stampo suprematista. L'ideologia che ha mosso l'azione va nella stessa direzione di quella nella moschea neozelandese.

Ma occorre affrontare il tema, non mettere la tesata sotto la sabbia. Anche col fondamentalismo islamico. Dovremmo tutti avere il coraggio di farlo. Noi ebrei siamo una cartina di tornasole. Pensiamo all'ascesa di Hitler, il mostro va annientato prima che cresca».

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