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Ruby, non ci fu intimidazione La verità che i giudici ignorano

La ragazza fu fermata anche nove giorni dopo la telefonata del Cav e venne portata in comunità. Oggi verdetto d'Appello

Ruby, non ci fu intimidazione La verità che i giudici ignorano

A Milano Ruby non venne portata in questura una sola volta. Nove giorni dopo essere stata fermata in corso Buenos Aires, ed essere stata rilasciata e consegnata a Nicole Minetti, la ragazza marocchina finì in questura un'altra volta. Era il 5 giugno 2010. Del primo episodio i processi e le cronache si sono occupati a lungo. Del secondo, assai meno: fino a pochi giorni fa, quando gli avvocati di Silvio Berlusconi davanti alla Corte d'appello vi hanno riportato l'attenzione. Perché è lì, nel secondo fermo di Ruby, che si può trovare la prova logica dell'innocenza del Cavaliere da entrambe le accuse per cui in primo grado è stato condannato a sette anni di carcere.
Stamattina alle 9.30, il giudice Enrico Tranfa aprirà l'ultima udienza del processo d'appello, e subito dopo si ritirerà in camera di consiglio insieme ai suoi colleghi Concetta Locurto e Alberto Puccinelli. Ne uscirà, verosimilmente, nel pomeriggio, ed è assolutamente impossibile fare previsioni sul verdetto. Ma un dato, per i legali dell'imputato, è certo: per emettere una nuova condanna, i giudici dovranno chiudere gli occhi davanti a una lunga serie di buchi, di contraddizioni e di salti logici contenuti nella sentenza di primo grado. E tra questi, i fatti del 5 giugno sono forse i più insormontabili.
Quel giorno, Kharima el Mahroug viene fermata nuovamente dalla polizia: le vicine di casa chiamano la Volante perché dalla casa dove stanno Ruby e la sua amica Michelle Conceicao arrivano strepiti e rumori. Quando arriva la polizia, Ruby ha addosso solo gli slip, è pesta e sotto choc. La portano due giorni in ospedale. E poi alla comunità «Casa della Giovane» di corso Garibaldi. Stavolta non chiede l'aiuto di nessuno. Nessuno si presenta per chiedere il suo affidamento. Nessuno telefona. E Ruby va a finire esattamente dove voleva mandarla nove giorni prima, il 27 maggio, il pm dei minori Annamaria Fiorillo: in comunità. E la prima ovvia conseguenza è che perde ogni rilievo la presunta disobbedienza della questura alla Fiorillo, che su questa vicenda ha esternato mediaticamente in ogni dove, e proprio ieri si vede assolta dal Csm nel procedimento disciplinare scaturito da quelle polemiche a mezzo stampa.
Ma l'impatto maggiore dei fatti del 5 giugno è sul quadro di prove del processo a Berlusconi. La prima incongruenza, rispetto alle tesi dell'accusa, è nel comportamento della polizia. Dice l'altro giorno l'avvocato Filippo Dinacci: «Se veramente il 27 maggio la questura avesse subito una intimidazione così violenta, il 5 giugno qualcuno se ne sarebbe ricordato. Questa e la prova che la concussione non c'era stata». E l'avvocato Franco Coppi: «Il 5 giugno il capo di gabinetto Ostuni e il funzionario Ivo Morelli non si pongono il problema. L'unica iniziativa che prendono è chiamare la Minetti senza trovarla, e a quel punto Ruby finisce in comunità. Se Ostuni fosse stato un funzionario paralizzato dalla paura per la sua carriera avrebbe messo sottosopra Milano per trovare la Minetti. E avrebbe chiamato Estorelli, il capo della scorta di Berlusconi per avvisarlo che la ragazza ci era ricascata». Invece nulla di tutto questo accade. Il caso viene trattato come qualunque altro.
Ancora più singolare rispetto alle tesi dell'accusa è il comportamento di Kharima el Mahroug. Se la ragazza, come sostiene la Procura, conosceva segreti così scottanti da tenere in pugno il presidente del Consiglio, avrebbe fatto fuoco e fiamme per evitare l'ennesimo affidamento in comunità. Invece, dice Coppi, «né Ruby né le sue amiche si attivano per cercare aiuto». E il motivo è semplice: «La prima volta, dopo la telefonata del 27 maggio, Berlusconi ha saputo che Ruby non era egiziana ma marocchina, e soprattutto che era minorenne.

E le ha detto di sparire, di non farsi più vedere. Lei capisce la lezione e non chiama nessuno: perché sa che sarebbe inutile».
Ecco: per condannare di nuovo Berlusconi, dicono i suoi avvocati, bisognerà far finta che tutto questo non sia successo.

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