Qualcosa non quadra. Ufficialmente, come ha spiegato il premier Giuseppe Conte davanti al Copasir, non è saltato fuori nulla di utile. Gli americani la scorsa estate hanno bussato alle porte dei nostri Servizi ma gli incontri non hanno portato elementi utili alla controinchiesta del procuratore John Durham sulla genesi del Russiagate. Ora però il ministro della Giustizia William Barr afferma: «Durham potrebbe trovare elementi utili alla sua inchiesta in Italia». Combinazione, l'intervista del General Attorney a Fox News arriva nel giorno in cui il Copasir interroga uno dei protagonisti di quei due incontri anomali andati in scena fra agosto e settembre nella capitale: Gennaro Vecchione, direttore del Dis, l'organismo che supervisiona le attività dei nostri apparati di intelligence. Ma Vecchione in qualche modo contraddice Barr: «Non abbiamo consegnato alcuna informazione agli americani». Il generale insomma blinda la difesa di Conte, in attesa delle prossime audizioni. I dubbi, però, restano. «L'indagine di Durham - annuncia sibillino Barr - sta facendo progressi».
Strano. Il Russiagate è una storia che passa per mezzo mondo, ma il capitolo italiano è saturo di suggestioni. Fra l'altro è un professore maltese che insegna alla Link University di Roma, Joseph Mifsud, a innescare nel 2016 la trama degli 007, informando lo staff di Trump dell'esistenza delle mail compromettenti della Clinton in mano ai russi. Ora però Barr e Durham capovolgono la lettura della spy story: Mifsud, che è sparito nel nulla, sarebbe stato un agente provocatore di qualche servizio occidentale per sporcare l'immagine di Trump.
Le questioni si ingarbugliano e si mischiano: forse il capo del governo, nei giorni delicatissimi del cambio di maggioranza, voleva accreditarsi nei confronti del presidente Trump che in piena bagarre benedirà l'«amico Giuseppi».
Ipotesi e retroscena, mentre la Lega reclama una spiegazione convincente su un altro episodio scivoloso, il presunto conflitto di interessi, risollevato nella notte del disastro elettorale umbro, dal Financial Times: il professor Conte diede un parere legale pesante poi condiviso in pieno dal governo guidato da Giuseppe Conte.
«Povero Conte - aveva ironizzato lunedì mattina Salvini da Perugia - fra servizi segreti, interrogazioni, conflitti di interesse. Non lo invidio proprio». Salvini aveva invitato Conte a chiarire le due parti in commedia sostenute in una vicenda poco esaltante: il sostegno dato al fondo Athena del finanziere Raffaele Mincione nel tentativo di scalare, attraverso la Fiber 4.0, la Retelit, società di telecomunicazioni con 12mila chilometri di fibra ottica, all'interno di un ventaglio di operazioni condotte per conto del Vaticano.
Anche su questo fronte Conte ha cercato di tranquillizzare Parlamento e opinione pubblica: «È tutto trasparente, non c'è stato nessun conflitto di interessi». Ma per la Lega la risposta, fin troppo disinvolta, non chiarisce niente e allora i colonnelli salviniani chiamano Conte a spiegare in aula «urgentemente». Certo, le coincidenze sono sotto gli occhi di tutti: il 14 maggio 2018 il professor Conte sostiene nel suo parere che Retelit, sfuggita alla cordata di Mincione, può essere soggetta al golden power, con conseguente azzeramento del nuovo cda legato a interessi libici; pochi giorni dopo, il 7 giugno, il governo, sempre presieduto da Conte, si colloca sulla stessa linea: Retelit è strategica. Conte quel giorno si astiene, ma questo non basta a dissipare le ombre.
L'avvocato e il politico Conte vanno a braccetto: «Se fosse vero, anche solo parzialmente - ha detto Salvini - quello che il Financial Times scrive - il premier dovrebbe dimettersi dopo tre minuti». Misteri e retroscena in un intreccio di vicende tutte da decifrare.
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