Salhi ha inviato in Siria il selfie con la testa della vittima

Prima il mutismo, poi la dissimulazione, infine le prime ammissioni legate al selfie dell'orrore spedito via WhatsApp , in cui il carnefice si mostra soddisfatto vicino alla testa mozzata della vittima. Yassin Salhi, 35 anni, autista per un'azienda di consegne e autore della decapitazione di Hervé Cornara, il suo datore di lavoro, e dell'attacco alla fabbrica di gas industriali a Saint-Quentin-Fallaviern, vicino a Lione, in Francia, ha cominciato a parlare. Dal silenzio - «un'amnesia» aveva detto - all'ammissione della decapitazione fino alle prime dichiarazioni per «spiegare come si sono svolti i fatti» nel giorno del terrore, il venerdì di Ramadan in cui i terroristi islamici hanno colpito anche Tunisia e Kuwait. Gli inquirenti stanno cercando di capire se l'attacco in Francia sia il frutto di un'azione coordinata dello Stato islamico, il gesto di un lupo solitario oppure - come Salhi ha dichiarato in un primo momento - un'azione priva di legami con il terrorismo, legata «a difficoltà personali» con la moglie e la vittima. Le risposte che arrivano dalle indiscrezioni sull'inchiesta - diffuse da Le Figaro - non sono per nulla rassicuranti. Alle 7.30 del mattino Salhi viene visto per l'ultima volta con il suo datore di lavoro. Potrebbe averlo minacciato con un'arma giocattolo e forse strangolato prima di tagliargli la testa. Alle 9.28 si presenta in fabbrica, alla Air Products, e in sette minuti prepara la scena dell'orrore, quella che poi immortala in un autoscatto: la vittima decapitata, e due bandiere, una nera e l'altra bianca, con la sua dichiarazione di fedeltà ad Allah in bella mostra, sulla cancellata dell'azienda. Poi punta il suo furgoncino carico di bombole a gas contro l'hangar dell'azienda, bloccato giusto in tempo da un pompiere mentre grida «Allah Akbar». Ma è nel selfie dell'orrore che gli inquirenti stanno trovando le tracce che portano alla jihad. Lo scatto, dove Salhi si mostra con barba e capelli lunghi, sarebbe stato inviato a un numero di cellulare canadese ma il reale destinatario - è questa la strada che hanno scovato gli investigatori francesi con l'aiuto delle autorità canadesi - si trova in Siria da almeno un anno, nelle aree al confine con l'Irak in mano ai jihadisti. Mentre l'Antiterrorismo francese perquisiva l'appartamento di Salhi a Saint Priest, nella banlieue di Lione, e rilasciava moglie e sorella del presunto terrorista, che è anche padre di tre figli, i legami tra il tagliagole Salhi e gli integralisti religiosi si sono fatti sempre più tangibili. Salhi si sarebbe radicalizzato nel 2006 alla moschea di Pontarlier, nell'est della Francia, all'inizio del Duemila, attirato dalle sirene integraliste del «grande Ali», cioè Frédéric Jean Salvi, salafita simpatizzante di Al Qaida sospettato di aver partecipato alla preparazione di alcuni attentati in Indonesia. «Un lupo travestito da agnello» lo definisce un giornalista della radio Rtl che aveva parlato con lui dello Stato islamico, «semplicemente per chiedere il mio parere». E le dichiarazioni del suo ex allenatore di arti marziali non sono più confortanti. «Aveva una doppia personalità - ha detto a Le Parisien - Era una bomba a scoppio ritardato. Nei combattimenti faccia a faccia si lasciava picchiare senza reagire e senza proteggere il volto.

E poi, dopo qualche minuto, esplodeva di collera e picchiava con rabbia in tutte le direzioni. Era pericoloso per sé e gli altri». Ma anche lui non è stato fermato nonostante fosse al centro di due informative dei servizi segreti.

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