Lo scenario peggiore: Gentiloni sfiduciato fa la Stabilità

Percorso minato per il Rosatellum al rush finale. Se non passa, il premier si dimette

Lo scenario peggiore: Gentiloni sfiduciato fa la Stabilità

Roma - Più che fiducia «tecnica», si è trattato di una «sfiducia mascherata». Un governo di minoranza salvato dalla benevolenza delle opposizioni che appoggiano il Rosatellum-bis.

Sintomo di un situazione che è probabilmente ancora più delicata di quanto si pensasse, con l'emergere di una debolezza della maggioranza i cui tratti - visti da un'altra prospettiva - D'Alema ieri connotava in una sintesi drammatica: «Il Pd logora la democrazia». Con 308 voti a favore Berlusconi salì al Quirinale, ricordava Bersani. Vero. Ed è allora ancora più chiaro come questa forzatura della fiducia sia stata un atto obbligato, di sicuro persino un errore, ma anche il sentiero stretto nel quale ci si doveva per forza addentrare. Come, d'altronde, anche il Quirinale non aveva mancato di osservare l'altra sera in via del tutto ufficiosa.

Ma è pure possibile che non finisca qui. C'è il voto finale alla legge elettorale, che sarà segreto e senza il vincolo della fiducia. Soprattutto, qualora entro domani Montecitorio riuscisse comunque a licenziare la legge, martedì il provvedimento arriverà a Palazzo Madama. Dove, dopo un rapido passaggio in commissione, potrebbe giungere al voto d'aula mercoledì o giovedì prossimi. Sarà quello del Senato il voto decisivo, con una fiducia che non è affatto scontata (quella di ieri lo era, eppure si è visto com'è andata). I tempi sono risicatissimi: il 24 ottobre comincia la sessione di bilancio e Renzi ha premuto per avere l'iter della legge elettorale concluso ben prima delle elezioni siciliane del 5 novembre. Da quel voto, nel quale si profila una Caporetto del Pd, può scaturire la pietra tombale su qualsiasi proposta elettorale avanzata dal partito di Renzi. Il premier Gentiloni si troverebbe in una situazione ancora peggiore di quella che ha affrontato nelle ultime ore - lui che aveva promesso nel discorso d'insediamento che il governo mai si sarebbe occupato «direttamente» della legge elettorale -, dovendo predisporre un decreto di armonizzazione dei sistemi usciti dalla falce della Consulta. «Armonizzazione» che non sarebbe comunque esente da critiche, e che andrebbe convertita in legge entro 60 giorni, cioè proprio nel pieno dell'esame della legge di Stabilità. Un ingorgo parlamentare e istituzionale che lascia dei margini inquietanti ad inconfessabili «baratti» nei lavori di commissione e aula, tra materie del tutto aliene tra loro.

Il ricorso alla fiducia e alla sua ghigliottina dei tempi e delle procedure parlamentari, come si vede, viene imposto dal vicolo cieco nel quale ci si è cacciati. E se invece il governo andasse sotto nel voto di fiducia al Senato? Lo scenario sembra aprirsi su orizzonti ancora più foschi di quelli precedenti. Il premier Gentiloni sarebbe costretto a rassegnare le dimissioni nelle mani del presidente Mattarella, ritrovandosi a Palazzo Chigi soltanto per il disbrigo degli affari correnti. Ovvero per l'«ordinaria amministrazione». In questa condizione di «giri a basso regime» si troverebbe però a dover portare avanti la legge di Stabilità e, nel contempo, avanzare un provvedimento di «necessità e urgenza» sulle norme elettorali. Un decreto «eccezionale» sulle normi elettorali durante l'ordinaria amministrazione. Circostanza mai verificatasi.

Unica via d'uscita, anch'essa controversa, un'«armonizzazione soft» di Consultellum e Porcellum, realizzata attraverso decreti attuativi e circolari ministeriali. Con esito elettorale che somiglierebbe tanto a un tuffo nel precipizio.

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