di Giordano Bruno Guerri
U na delle pratiche preferite dagli italiani è quella del «Sì, però...». Le cose vanno bene? «Sì, però...» Lo vediamo in questi giorni, nelle risposte alla comunicazione del ministro Franceschini sull'ottimo risultato dei musei statali: 50 milioni di visitatori, 200 milioni di incassi. E subito è partito il coro dei «Sì, però non si mercifica la cultura...», «Sì, però si fanno le gare di canottaggio e i matrimoni nella Reggia di Caserta...». Certo, le cose vanno fatte con quel grano di sale che spesso manca ai critici del «Sì, però»: non si permetta a nessuno di organizzare un banchetto nella Sala del Trono o nella Stanza della Cheli, ma nel parco 10 ettari sì, santocielo. A me è capitato di leggere, nell'edizione bresciana del Corriere della Sera di ieri, le parole di un signore preoccupatissimo per la notizia che il Vittoriale degli Italiani è passato dai 147.000 visitatori del 2018 ai 258.000 del 2017: «Fin dove è giusto spingere le iniziative per aumentare l'afflusso di nuovi visitatori?», si chiede ansioso. È curioso, rispondo, che nessuno si preoccupasse quando, anni fa, il Vittoriale perdeva 10.000 visitatori l'anno, lo spazio visitabile era ridotto a un terzo e la Nave Puglia stava per franare a valle perché non c'erano i soldi per il consolidamento della collina ecc. Per non dire che, proseguendo con quell'andamento, si sarebbero mantenuti in sonno dipendenti illicenziabili, a spese della comunità. Oggi, nonostante - e anzi grazie - all'aumento dei visitatori, non troverete un filo d'erba fuori posto, nessuno è stato licenziato, tutti lavorano e prima o poi si dovrà assumerne altri. E si fa cultura, grazie a quel denaro. Un esempio brutale: all'inizio degli anni Novanta, al Vittoriale venne organizzato un importantissimo e, immagino, costoso - convegno sull'impresa di Fiume: c'erano Nolte, De Felice, Ledeen. Ma gli atti non vennero stampati perché non c'erano i soldi per la trascrizione e la stampa, quindi fu come se il convegno non fosse mai avvenuto. Posso lietamente annunciare che quegli studi eccellenti e ancora validi verranno pubblicati quest'anno, come molti altri nuovi nuovi. La riforma del ministro Franceschini va nella direzione giusta, in stampo di liberalismo puro: valorizzare, comunicare, aprire, affidare i beni culturali non solo a chi conosce la materia, ma anche a chi è in grado di far funzionare i musei come un'azienda sana. I musei sono anche aziende. Pagano le bollette, le tasse, gli stipendi, hanno uscite e entrate, hanno un bilancio. Se si vuole che di tutto ciò non ci si occupi, che si pensi soltanto alla conservazione, allora lo stato dovrebbe tirare fuori non so quante decine di miliardi in più per garantirne la sopravvivenza e l'efficienza. Peggio: si mancherebbe al dovere civile, politico, costituzionale, di mettere la cultura a disposizione della maggior parte dei cittadini.
Se proprio si vogliono fare le pulci ai conti, dunque, si guardi piuttosto agli utili: 200 milioni di incasso per 50 milioni di visitatori, fanno una media di 4 euro a biglietto, evidentemente ottenuta grazie agli ingressi gratuiti la prima domenica del mese, agli omaggi, agli sconti. Il Vittoriale - fondazione di diritto privato, benché vigilata dal ministero del Beni culturali - ha una media a biglietto di 12 euro. Quindi i nostri 258.555 visitatori corrispondono a 775.665 dei musei statali.
Ecco, anch'io ho detto il mio «sì, però». In compenso ho dato atto al ministro Franceschini che, sì, fa anche «qualcosa di sinistra».
* Presidente della Fondazione
Il Vittoriale degli Italiani
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