Sedici anni da indagato, la carriera distrutta, le spese legali che nessuno gli ridarà mai più: e l'assoluzione con formula piena. Una storia simile purtroppo a centinaia o migliaia di altre, quella dell'ex presidente di Enoteca Italiana Pierdomenico Garrone. Ma a Garrone spetta forse un record: mai, neanche una sola volta, in tutti questi anni, ha potuto vedere in faccia i suoi accusatori. Non è mai stato convocato per un interrogatorio, non ha mai avuto la possibilità di convincere un pm della sua innocenza. Come se alla macchina che lo aveva inghiottito la sua verità non interessasse nemmeno.
Tre giorni fa, la Corte d'appello di Roma ha chiuso definitivamente la faccenda, respingendo il ricorso presentato dalla procura della Capitale, ultimo approdo del fascicolo aperto sedici anni fa ad Asti, con il blitz del 5 aprile 2006. «Quel giorno ero in treno - racconta Garrone - ed erano le sette del mattino. Mi arrivano le telefonate di mia madre e di mia sorella che mi raccontavano che la Guardia di finanza aveva fatto irruzione in casa con un mandato di perquisizione. Alle dieci e mezza la Procura di Asti fece la conferenza stampa raccontando tutto come se fossi già stato dichiarato colpevole».
Protagonista dell'inchiesta, il procuratore di Asti Salvatore Sorbello: autore recentemente di una autobiografia dal pacato sottotitolo «storie pubbliche e private di un magistrato coraggioso». A Garrone e ad altri sette indagati, Sorbello nell'aprile 2006 contesta una sfilza di reati: associazione per delinquere, false fatturazioni, e truffa ai danni dello Stato. Al centro, Enoteca Piemonte e Enoteca Italia, due enti per la promozione dei vini. Garrone si dimette il giorno stesso dalla carica. Ma curiosamente pochi mesi dopo si dimette anche Sorbello, che lascia la magistratura per andare a fare il presidente di un ente pubblico contro la contraffazione dei marchi. «Io - dice adesso Garrone - non ho elementi per dire che la visibilità pubblica sia stata usata da Sorbello per fare carriera. Mi chiedo solo se abbia sostenuto un concorso per andare a occupare quel posto».
Dopo l'addio del procuratore, anche il fascicolo di indagine su Enoteca Italia lascia Asti, direzione Roma. E approda nelle mani di un pubblico ministero di cui le cronache si sono dovute occupare nel corso del «caso Palamara»: il pm Stefano Fava, finito indagato e sotto procedimento disciplinare insieme all'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati. «Neanche Fava ha mai ritenuto necessario interrogarmi. Però ha chiesto e ottenuto il mio rinvio a giudizio».
Nel 2017, il tribunale di Roma assolve Garrone con formula piena. Ma Fava non demorde, e presenta ricorso presentando anzi anche un'altra accusa, il concorso in bancarotta. Venerdì scorso, la Corte d'appello dichiara il ricorso inammissibile. Fine della partita?
In realtà no: perché se finisce la vicenda giudiziaria rimane aperta la ferita nella reputazione, l'eterna memoria di Google che a ogni ricerca sul nome di Garrone e delle altre migliaia come lui sfornerà l'etichetta di indagato e non quella di assolto.
«Per questo - dice Garrone, che da una vita si occupa di comunicazione - sto lavorando alla creazione di un'associazione che si chiamerà Diritto alla buona fama e si occuperà della tutela della reputazione delle persone e delle aziende a fronte di situazioni come quella che mi ha coinvolto a lungo. Sono stato assolto e le spese processuali le paga lo Stato, ma io vorrei sapere a chi dare il mio Iban per il risarcimento di quello che ho speso.
E vorrei sapere perché se le auto in circolazione sulle strade sono obbligate ad avere una assicurazione, non debbano avere una assicurazione anche i pubblici ministeri che circolano nei nostri palazzi di giustizia e che possono fare danni altrettanto gravi».
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