No, che sciocchezza! Il centrodestra non è morto affatto, però gira impazzito per il cortile con l'immagine di Alfano e Salvini che si tirano contro i barconi degli emigranti. Ho sempre pensato che il cosiddetto centro costituisca semplicemente l'insieme degli italiani che non vogliono la sinistra, comunque travestita, anche se sono un po' incuriositi dal nuovo oggetto democristiano junior Matteo Renzi.
Quando quarant'anni fa nacque il Giornale, i miei genitori Graziella e Corrado vennero presi da un attacco di felicità sfrenata: avevano per la prima volta, voce. Erano semplici borghesi che vivevano di stipendio e buone maniere. Io ero un estremista nel Partito socialista, mai comunista neppure cinque minuti. Poi conobbi gli Stati Uniti e il Regno Unito, capii molto e mi resi conto di essere un liberale.
Attraverso i miei anni a Repubblica imparai la vera lezione gramsciana dell'egemonia: chi comanda sulla cultura ha già vinto e comanderà sulle università, sulle piazze, sui partiti, sulle televisioni, sui giornali e persino sui Papi. Dopo anni a New York per la Stampa approdai al Giornale da liberale. Volevo il mio Paese schierato con gli Stati Uniti, con Israele, con il Regno Unito. Ero sicuro che Berlusconi, l'uomo che era riuscito a mettere insieme tutti i pezzi dello specchio rotto, dalla Lega agli ex neofascisti, dai moderati agli agitati, dai liberali ai molti (troppi) statalisti la pensasse come me, come tanti. Poi avvenne per me l'incidente: dopo aver guidato nella fatica e nel sangue la Commissione Mitrokhin non ne potevo più dei metodi che venivano dal freddo. Così sbattei la porta quando Berlusconi non prese le distanze dall'invasione russa della Georgia nel 2008.
Cominciai a vedere poi smottamenti e crisi, affaristi e gentucola da quattro soldi, il solito affollamento di nullità che già avevo visto intorno a Craxi. Quasi nessun rivoluzionario liberale, salvo Antonio Martino. Fui l'unico deputato del Pdl ad andarmene per motivi ideali. Poi cominciò il vero assalto alle istituzioni e tornai nell'area di governo E siamo all'oggi. Forza Italia è descritta al solito come un luogo di sgretolamento e una riva da cui fuggire. Vedo Berlusconi tornato in campo per rimettere insieme i pezzi, con una pazienza infinita e del resto lui è l'unico che l'ha fatto e che può tentare di farlo ancora.
La sentenza Ruby ha infatti rimesso in pista Berlusconi politico e questo è fondamentale: Forza Italia è un partito creato soltanto da un uomo e dalla sua identità. Un partito che nel suo momento più basso prende comunque più voti di quanti ne prese Craxi al suo momento più alto.
Ad accelerare la crisi, ha fatto irruzione il fenomeno Renzi che come tutti i toscani le canta chiare, ma spesso non si sa bene che cosa canti. Berlusconi quando esordì in politica scrisse «L'Italia che vorrei». Da Renzi non abbiamo indizi sul futuro, ma soltanto una gragnuola di annunci. Il suo scilinguagnolo è stato scambiato per raffinata politica pragmatica sicché si è impiccato da solo a scadenze impossibili senza un solo elemento di liberalismo. Eppure, l'Italia è in preda a una febbre liberale che si coglie ad ogni angolo di strada ma che è stata assordata dalla grancassa di Grillo, amplificatore senza lo sbocco. Renzi e il Pd sono così diventati la nuova Dc che i moderati votano temendo Grillo come i loro nonni si turavano il naso votando Dc.
In questa morsa di apparenze e capricci, la capra crepa: la destra democratica rappresentata da Forza Italia e dal suo leader non trovano spazio perché la polarizzazione azionata dal gioco degli specchi ha funzionato. Forza Italia e Berlusconi possono tornare a vincere? Ma che domanda: certo! La maggioranza degli italiani – incattiviti, delusi, scoraggiati – è pur sempre una maggioranza che non vuole bere a sinistra. Lo sapeva Gramsci, lo sapeva Togliatti, lo sapeva Berlinguer che si giocò tutto sul compromesso storico.
Oggi la partita è di nuovo aperta: Renzi ha sfondato il suo massimo storico senza poter modificare il Parlamento, Grillo è in discesa e se Berlusconi avesse la forza di tornare alla rivoluzione liberale vera, se facesse il pieno di giovani liberali di cui l'Italia è piena, potrebbe rimettere in pista un partito con vocazioni maggioritarie. Le premesse ci sono. Ha fatto bene a tener duro sul patto del Nazareno non perché la riforma del Senato sia un capolavoro, ma perché bisogna pur partire da zero.
Ma adesso deve riaffermare l'identità liberale che nessuno gli può soffiare perché nessuno ce l'ha, può sfoltire l'apparato, può dettare condizioni e mostrare che il partito dei moderati è un partito che chiede gesti radicali. Un'iniezione liberale, ma da cavallo. In caso contrario avremo un partito-ricotta, destinato ai parassiti, e divorato dai vermi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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