Politica

Soldi alla Lega? Non c'è prova. Ecco tutti i buchi dell'inchiesta

Fari su una società panamense. Ma finora l'unico teste è un ricattatore in cella. I dubbi sui tempi degli arresti

Soldi alla Lega? Non c'è prova. Ecco tutti i buchi dell'inchiesta

Un ricattatore che diventa testimone d'accusa per conto della Procura. I riscontri alla parte bollente delle sue accuse, che vengono cercati in mezza Europa ma che non vengono trovati. Un'ordinanza di custodia che viene chiesta con massima urgenza alla metà di luglio, ma che viene disposta solo due mesi dopo, a una settimana dalle elezioni regionali che decideranno la sorte del governo. Sono queste tre stranezze a saltare all'occhio leggendo le carte dell'indagine della Procura di Milano che sta mettendo nell'occhio del ciclone la Lega e il suo leader Matteo Salvini, connesso a doppio filo ad almeno due dei commercialisti che tre giorni fa sono stati messi agli arresti domiciliari con l'accusa di peculato e turbativa d'asta per la intricata faccenda di un capannone alle porte di Milano comprato da una società della Regione Lombardia.

Ieri il procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Greco, deve intervenire con un comunicato all'ora di pranzo per mettere a tacere le voci che dal mattino si inseguono freneticamente, dopo che alcuni giornali hanno rivelato che nei cellulari di uno dei commercialisti indagati era stato piazzato un trojan, l'ormai famoso captatore elettronico che trasforma uno smartphone in una micidiale microspia ambulante. E che i commercialisti hanno incontrato a cena nel maggio scorso il leader leghista Matteo Salvini, insieme ai senatori del Carroccio Roberto Calderoli e Stefano Borghesi. Notizia bomba, in grado di far temere o sperare che anche le chiacchiere di Salvini siano state registrate e possano piombargli addosso nel pieno della campagna. Ma il procuratore Greco smorza gli entusiasmi: «Non era attivo alcun captatore informatico». Se il trojan c'era, è stato prontamente disattivato, come impone la legge quando nel suo raggio d'azione entra un parlamentare.

La cena, però, c'è stata (anche se Calderoli fa sapere di non esser mai andato a cena con nessuno per tutto maggio). E dunque l'inchiesta continua a ronzare sul capo della Lega, visto che è impossibile per lui prendere le distanze dai commercialisti che sono accusati di essersi intascati 400mila euro di fondi della Regione Lombarda, cioè la metà di quelli pagati dalla Lombardia Film Commission per comprare un capannone a Cormano. Scaricare Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba, due dei commercialisti, per Salvini è impossibile perché il primo è il revisore dei conti e l'altro l'amministratore del gruppo leghista al Senato.

Se i due si sono presi dei soldi e li hanno girati alla Lega, insomma, il guaio è grosso. Il problema è che l'unica fonte che va in questo senso, spiegando che Michele Scilieri - il terzo commercialista arrestato, anche lui vicino alla Lega - «mi confidò sorridendo che il denaro sarebbe stato impiegato per le elezioni» è Luca Sostegni, un personaggio particolare: attualmente in galera per avere ricattato i tre professionisti pretendendo in cambio del suo silenzio soldi a ripetizione. La Procura sa che la parola di Sostegni è un po' poco per imbastirci un processo. E ha cercato riscontri alle sue accuse con una serie di rogatorie all'estero su una fiduciaria panamense con sede in Svizzera: riscontri, zero.

Che dalla società padrona del capannone un po' di soldi siano arrivati ai commercialisti è assodato. Ma non c'è traccia di un loro approdo alla Lega. E secondo gli arrestati non c'è nemmeno prova che quelli fossero i soldi della Film Commission. Così, alla fine, tutto ruota intorno a un dettaglio tecnico: conveniva, alla Commission, l'acquisto del capannone? Una perizia dice che il prezzo era congruo. E il giudice che ha disposto gli arresti per sostenere che il bando di gara era stato ritagliato su misura proprio per quel capannone scrive che nel testo si dice «che l'immobile avrebbe dovuto essere preferibilmente un edificio autonomo con posti auto e aree di parcheggio», Un identikit che secondo il giudice corrisponde perfettamente al capannone di Cormano, ma forse anche ad alcune centinaia di altri.

Però gli arresti sono scattati, anche se con una tempistica singolare. Il 20 luglio il pm Stefano Civardi chiede l'arresto dei tre professionisti, sostenendo che se lasciati a piede libero potrebbero tornare a delinquere. Roba da arresto immediato. Ma il giudice non dice né sì né no. All'inizio di settembre, il pm insiste.

E stavolta, parte la retata.

Commenti