Politica

Lo Stato socio di un'azienda finita nei Paradise papers

Tra gli italiani con i soldi nei paradisi fiscali anche la Vitrociset. E poi i Rovelli e i Legionari di Cristo

Edoarda  Crociani e la figlia Camilla
Edoarda Crociani e la figlia Camilla

Embè? Così se la cavarono due anni fa gli italiani finiti nelle «liste Falciani». Allo stesso modo risposero l'anno scorso quelli comparsi nei Panama Papers. E con un bell'«embè?» (ovvero: e allora? Che c'è di strano, dove sta il problema?) sembrano avviati a replicare i connazionali approdati alle cronache per l'ultima informata di rivelazioni, i «Paradise Papers» venuti alla luce grazie all'hackeraggio dei computer di uno dei più famosi studi legali del mondo, Appleby. Tutto legittimo, secondo gli intestatari. Ma bisognerà vedere cosa ne pensa la Guardia di finanza, che da una settimana sta setacciando la miniera di informazioni frutto dello scoop della Suddeutsche Zeitung. E, risvolti giudiziari a parte, i dettagli curiosi non mancano.

Si scopre, per esempio, che il più importante quotidiano italiano, il Corriere della sera, ha rischiato di finire in mano a un signore che le tasse in Italia non le paga: nei Paradise Papers compare il nome di Andrea Bonomi, il capo della cordata che venne sconfitta da Urbano Cairo nella conquista del «Corrierone». Si apprende che a controllare la finanziaria di Bonomi, la BI Invest di Lussemburgo, ci sono tre trust con sede nelle Isole di Jersey. Strano? Niente affatto, spiega Bonomi all'Espresso: «Sono solo cittadino americano e svizzero e non ho obblighi fiscali in Italia». Beato lui.

Stessa risposta da Felice Rovelli, erede della dinastia che negli anni Ottanta regnava sulla chimica italiana, e finita al centro di una tempestosa vicenda giudiziaria: «Sono residente negli Usa e cittadino americano», spiega per giustificare un trust creato da Appleby per la sua famiglia alle isole Cook. «Su quel trust pago le tasse al fisco americano», specifica Rovelli junior.

E la medesima spiegazione arriva da Camilla Cruciani, che sta (forse) al punto d'arrivo della catena di controllo di Vitrociset, azienda specializzata in sistemi di sicurezza, appaltatrice dei ministeri della Difesa e della Giustizia per forniture riservate, controllata da una catena di società nei paradisi fiscali utilizzati da Appleby, ultimo tassello a Curacao: «Sono io a capo di tutta la filiera - spiega la Cruciani a Report - e la struttura è complessa perché tutta la mia famiglia vive all'estero». Che la Vitrociset avesse sede in un paradiso fiscale lo aveva denunciato già nel 2007 una inchiesta di Repubblica sugli appalti per l'aeronautica, ma oggi si scopre qualcosa in più: che il colosso è considerato un cliente inquietante dagli stessi avvocati di Appleby, che in una mail lo definiscono «oltre il nostro appetito di rischio». Cosa avranno intravisto di così allarmante, gli gnomi dello studio legale, per arricciare così vistosamente il naso? E cosa ne pensano le autorità italiane che hanno concesso a Vitrociset il Nos, il Nulla osta di sicurezza necessario per fornire software e hardware cruciali come quelli della società con sede a Curacaco? Oltretutto, il governo italiano, attraverso Finmeccanica, possiede una quota di Vitrociset, poco più dell'1%. Il caso spicca, nell'elenco delle rivelazioni sui Paradise Papers, perché solleva oggettivamente questioni delicate, visto che l'azienda detiene di fatto il controllo di informazioni riservate e delicate, e la sicurezza nazionale imporrebbe un po' di chiarezza in più. Oltretutto, secondo una comunicazione arrivata alla presidenza del Consiglio, il controllo della Vitrociset sarebbe recentemente passato nelle mani dell'imprenditore romano Antonio Di Murro, in violazione del diritto di prelazione che spetterebbe al governo. Gli avvocati della Cruciani hanno fatto sapere che il pacchetto di maggioranza resta in mano alla signora, ma il giallo resta.

Per il resto, gli italiani citati nel dossier non paiono affatto imbarazzati: d'altronde si trovano in compagnia altolocata, visto che la stessa regina d'Inghilterra compare nelle carte dello studio Appleby. Ma la regolarità delle operazioni di esterovestizione di fondi e quote societarie è tutta da verificare.

La lista completa degli italiani che compaiono nei Paradise Papers, d'altronde, per il momento non è disponibile: l'Espresso, che ne detiene insieme a Report i diritti per l'Italia, ha scelto di non pubblicare l'elenco integrale ma di approfondire i casi uno per uno, e questo richiederà tempo. Quindi, almeno per ora, non si ripeterà la gogna pubblica della lista Falciani, quando persino Stefania Sandrelli si ritrovò inseguita dalle Iene che le chiedevano conto di mezzo milione di dollari («Ma ho scudato tutto!», spiegò il sogno erotico di una generazione); né quella che seguì l'anno scorso alla divulgazione integrale dei Panama Papers, con Carlo De Benedetti, editore di Repubblica, costretto a spiegare perché mai una fetta del suo patrimonio fosse in mano a una società chiamata Now Group, con sede alle Isole Vergini presso Mossack e Fonseca, lo studio da cui provenivano i papers: «Tutto denunciato, tutto trasparente», fece sapere allora l'Ingegnere. Ed è il ritornello che si sentirà ripetere c'è da starne certi, anche da molti dei clienti di Appleby. Compresi i più inattesi di tutti: i Legionari di Cristo, la congregazione cattolica che nel 2006 venne investita dallo scandalo per gli abusi sui seminaristi compiuti dal suo fondatore, Marcial Maciel Degollado, rimosso da papa Ratzinger. E ora salta fuori che sotto il regno di Maciel i «Legionari» si erano dotati di una rete di offshore, dalle Bermuda alle Isole Vergini. «Society for Better Education», si chiamavano.

In realtà, nascondevano il malloppo.

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