La via stretta di Khamenei: trattare ed esilio o farsi martire

Se l'ayatollah non negozierà con gli Usa finirà probabilmente ucciso

La via stretta di Khamenei: trattare ed esilio o farsi martire
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Di fatto scomparso dopo il video pieno di minacce trasmesso sei giorni fa dal suo rifugio-bunker, la Guida Suprema della Repubblica islamica dell'Iran si trova, politicamente parlando, davanti a un bivio. Donald Trump ha devastato con le sue bombe mostruose il sito più segreto (e di conseguenza ben più che sospetto) del programma nucleare iraniano, dopodiché gli ha rivolto un ultimatum: è ora di accettare le nostre condizioni per arrivare a una pace. E dunque Ali Khamenei deve decidersi: deve dire un sì o un no.

In realtà la Guida Suprema della teocrazia sciita iraniana, del regime che ha fatto del suo slogan categorico "Morte all'America!" un marchio di fabbrica di 46 anni di potere assoluto, ha già deciso per il no. E questo non solo perché, al punto in cui ormai si trova, una via d'uscita vantaggiosa non esiste più. Ma soprattutto perché l'Iran islamico non può essere paragonato alle altre dittature mediorientali collassate in questi decenni: il fondamento del potere khomeinista è puramente religioso, e il leader di un sistema che proclama di agire in nome di Allah per rendere il mondo un posto migliore attraverso un lavacro di sangue degli infedeli (ebrei e non solo) non può ordinare una capitolazione di fatto, tantomeno scappare a Mosca come un Assad qualsiasi o farsi impiccare ingloriosamente come Saddam Hussein dagli amici degli americani. Se deve cadere, deve farlo com'è vissuto: combattendo per l'affermazione della sua fede.

È per questo che Khamenei ha più volte ripetuto che l'Iran non negozia sotto pressione del nemico e non si arrende. Per lui, ormai ottantaseienne e stanco, non si tratta più di salvare la propria carriera politica: si tratta piuttosto di salvaguardare anche post mortem la propria immagine di leader religioso. Ormai Khamenei sa che se accettasse di negoziare per sopravvivere sarebbe politicamente finito, mentre se si rifiuterà di farlo probabilmente finirà ammazzato per mano israeliana. "Martirizzato", come lo sceicco e leader di Hezbollah Hassan Nasrallah a Beirut, come il capo politico di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran, come il capo militare della stessa organizzazione palestinese Yahya Sinwar a Gaza e come tanti altri prima di loro. Ecco: per lui, è certamente preferibile morire da martire, come usa dire nel sinistro gergo del fanatismo sciita.

Naturalmente nessuno sa cosa deciderà davvero di fare Ali Khamenei. Però, nonostante le illazioni giornalistiche, risulta difficile immaginarsi il vecchio ayatollah, diretto successore nel lontano 1989 del fondatore della Repubblica islamica Ruhollah Khomeini, giunto ormai comunque alla fine della sua vita, in un grigio esilio moscovita. Più probabile che, da un suo rifugio più o meno segreto, Khamenei continui a esortare gli iraniani a resistere all'intollerabile oltraggio di un attacco congiunto del Grande e del Piccolo Satana, come il suo regime usa qualificare gli Stati Uniti d'America e Israele. La sua possibile fine violenta ne farà un martire, il miglior destino cui possa aspirare.

Non è un caso né un dettaglio secondario che la Guida Suprema abbia appena nominato tre suoi potenziali successori nelle persone di alti dignitari religiosi (escludendo, tra l'altro, il figlio Mojtaba che era stato indicato come probabile erede della sua posizione).

Nel caso che Khamenei fosse ucciso, la cosiddetta Assemblea degli Esperti potrà così designare la nuova Guida del regime in tempi rapidi. Una mossa che perderebbe ogni significato qualora invece Khamenei sopravvivesse in esilio.

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