Sarà che il feticcio è il riassunto di una storia, sarà che racchiude in qualche modo un'emozione, meglio se malata, sarà che ti avvicina al mito, che ti fa sentire lì, dove scocca l'ora delle decisioni irrevocabili, ma le aste a colpi di assegni milionari che si scatenano a periodi per mettere il cimelio in salotto ha il potere spesso di superare i confini del buongusto e le vette del disgusto. Passi per la colossale Zis 110 del 1952, tre tonnellate, sette posti, 1.276 chilometri sul contachilometri, con due bandierine sovietiche ai lati a far da ciliegine, con cui Stalin si faceva scorrazzare in parata benedicente per la gioia dei proletari di tutto il mondo. Il cimelio in questione, va detto, ha conservato intatto il fascino agé indipendentemente dall'autista: fu aggiudicata a un collezionista di Austin per 200mila dollari, molto meno, vergogna delle vergogne, dei due milioni spesi, si spera da un kamikaze per farne un'autobomba, per l'inguardabile Peugeot 504 del 1977 dell'ex capataz iraniano Mahmouh Ahmadinejad, più sfigata della Bianchina di Fantozzi. Passi anche per le trentatré lettere d'amore che Francisco Franco scrisse nel 1913, quando aveva 21 anni e prestava servizio in Africa, a Sofìa Subiran, una bella ragazzina che ballava il charleston di Melilla, oggi enclave spagnolo nel nord del Marocco, vendute a suo tempo per venti milioni delle vecchie lire. Anche i macellai hanno un cuore.
Ma del telefono di Adolf Hitler, con tanto di nome in stampatello inciso del proprietario, uno che se ne fa? Perché l'ultimo pezzo di Storia finito sul mercato è proprio l'apparecchio realizzato in bachelite dall'impresa tedesca Siemens che il Führer ha usato negli ultimi due anni di vita per impartire i suoi ordini di morte. Era sopravvissuto al bunker della cancelleria di Berlino dove Hitler ed Eva Braun si suicidarono e in origine era un normale telefono nero come quello standard della Wermacht, cioè l'esercito tedesco, non rosso com'è adesso, con il nome del Führer inciso insieme alla svastica e all'aquila del Terzo Reich. «È stato il dispositivo mobile di distruzione di Hitler» spiega la casa d'asta Alexander Historical Auctions in Maryland, per sottolinearne il valore aggiunto. L'avevano donato per gratitudine i sovietici al generale di brigata britannico Sir Ralph Rayner, il figlio ha deciso di sbarazzarsene, visto che non manda nemmeno gli sms. È stato venduto a 243mila dollari «un buon prezzo, siamo contenti» si frega le mani il vice presidente di Alexander Historical Auctions, Andreas Kornfeld, a chi non si sa perché il fortunato acquirente ha preferito non farlo sapere. L'asta, ovviamente, era telefonica. Di Hitler comunque avevano già venduto in passato un paio d'occhiali da vista confezionati dall'ottico Ruhnke, che Hitler indossava solo in privato per non sembrare un nerd, l'abitino da battesimo ricamato dalle svastiche regalato alla figlia di Goering e le cartelle cliniche segretissime che rivelavano il suo stato di salute: si faceva di cocaina, e, giurano i referti, era tormentato da incontrollabili flatulenze.
C'è comunque di peggio. La camicia insanguinata che Muammar Gheddafi indossava quando fu massacrato dai ribelli e il suo anello di matrimonio sono stati messi all'asta per due milioni di dollari; sette milioni di dollari è stato valutato il cappio usato per impiccare Saddam Hussein, custodito dal fido Mowaffak al Rubaie; pezzi di cervello e sangue di Benito Mussolini sono invece finiti sulla più pop eBay al prezzo di 15mila euro; un ricciolo di Che Guevara strappato dal cadavere ha toccato i centomila dollari. Più Hasta che asta.
L'Oscar però, in questa compilation di porcherie, spetta all'urologo statunitense John Lattimer che nel 1977 pagò tremila dollari per impadronirsi del
pene di Napoleone. E non riuscì nemmeno a resistere al pettegolezzo: «Le sue misure erano di quattro centimetri e mezzo in stato di riposo e di 6,1 durante l'erezione». Evidentemente non si chiamava Bonaparte per quello.
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