Torna il fantasma del voto E saltano i tagli alla spesa

Padoan si lascia sfuggire: «Così si deprimerebbe la crescita». È l'addio finale alla spending review

Torna il fantasma del voto E saltano i tagli alla spesa

Al ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan martedì è scappata una battuta ultra-keynesiana che pochi hanno notato. In sintesi: abbiamo messo un po' da parte i tagli alle spese perché sul Pil hanno effetti più depressivi delle misure sulle entrate. In altre parole, la spesa pubblica fa bene all'economia, tagliare le tasse no. Concetto in linea con la formazione del ministro, un po' meno con le impostazioni degli ultimi governi, di tutti i colori.

Dai concetti alle cifre, questo Def può essere considerato la pietra tombale sulle spending review tentate negli ultimi anni. Licenziati tutti i commissari che si sono cimentati nella dieta per la Pa, dei risparmi resta una traccia flebile nel documento che programma gli interventi di politica economica per i prossimi anni.

La parola spending review c'è. «L'obiettivo del risanamento dei conti pubblici si baserà anche sull'avvio della terza fase della spending review, più selettiva e allo stesso tempo coerente con i principi stabiliti dalla riforma del bilancio», si legge nel Def. C'è anche un cifra: un miliardo di euro. Ma solo dalle amministrazioni centrali (cioè dai ministeri) e solo a partire dal 2018. Nella manovra correttiva i tagli alla spesa sono mera rappresentanza.

Quelli programmati per i prossimi anni arriveranno con successivo decreto. Come dire, non sono stati decisi. Entrare nel merito adesso, con l'iter della manovra da tutelare e un clima sempre più elettorale, sarebbe controproducente. L'impegno, molto vago, consiste nel «più esteso utilizzo degli strumenti per la razionalizzazione degli acquisti di beni e servizi, da parte della Pa, oltre che da un maggiore coinvolgimento degli enti locali».

Ma proprio per parlare di enti locali e dintorni ieri si sono incontrati il ministro Maria Elena Boschi e Padoan. Come è noto, regioni e comuni non vogliono fare sacrifici. Semmai ora battono cassa. Sono il punto di riferimento del Partito democratico e un terminale sensibilissimo alle variazioni di spesa. Nel senso che governatori e sindaci la fanno pagare cara a chi riduce i loro bilanci.

Restano quindi da sforbiciare le amministrazioni centrali. I ministeri sono già sul piede di guerra per difendere i rispettivi bilanci. E pronti a dimostrare (spesso a ragione) che non ci sono più margini per ridurre i budget dei dicasteri.

Stando al Def possono comunque dormire sonni tranquilli. La spesa della pubblica amministrazione, secondo il Def, non calerà. Al contrario aumenterà. Il quadro tendenziale (cioè a legislazione vigente) prevede che si riduca dello 0,1%: Quello programmatico (quindi quello che tiene conto dei provvedimenti del governo) che cresca dello 0,1%. C'è uno 0,2% di spesa in più.

Se il deficit calerà (e il Def prevede che nel 2018 cali in modo considerevole) sarà solo grazie all'aumento delle entrate. Cioè delle tasse. In perfetto stile italiano-keynesiano.

Difficile ancora digerire tutti i dati del Def (il documento è uscito ieri pomeriggio). Ma Unimpresa ha già fatto una valutazione arrivando proprio alla conclusione che della spending review non c'è traccia.

La spesa pubblica crescerà di 24 miliardi di euro nel triennio 2017-2019.

E niente tagli al fisco, con le tasse destinate a salire di 3 miliardi. Le uscite dal bilancio pubblico aumenteranno rispettivamente di 5,4 miliardi, 10,8 miliardi e 8,2 miliardi nei tre anni. Un Def di preparazione alle elezioni. Non di riforme.

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