Trump, più lo odiano più vince. E lui parla già da presidente

Dai Bush a Eva Longoria non si fermano gli attacchi contro il tycoon. Che spiega: "Andrà tutto bene, non voglio rendere instabile il Paese"

Trump, più lo odiano più vince. E lui parla già da presidente

«Nei primi cento giorni da presidente inizierò a far tornare l'America grande»: parola di Donald Trump, che si racconta nei panni del prossimo inquilino della Casa Bianca in una serie di interviste ai media statunitensi delineando la sua ricetta da Commander in Chief, con la quale promette di riportare il Paese agli antichi splendori. Il tycoon, rimasto unico repubblicano in corsa per le primarie di partito dopo il ritiro di Ted Cruz e John Kasich, non solo è convinto di avere la nomination in tasca ma ritiene che nulla potrà ostacolare il suo cammino verso il numero 1600 di Pennsylvania Avenue. Nemmeno i tanti no di chi sostiene il movimento trasversale #NeverTrump, che dai colleghi di partito, clan Bush in testa, arriva sino al patinato mondo dello spettacolo. Non appena messo piede nello Studio Ovale, il re del mattone comincerebbe a convocare i papabili successori per il posto vacante alla Corte Suprema dopo la morte del giudice Antonin Scalia. Si concentrerebbe subito anche sul revocare gli ordini esecutivi di Barack Obama sull'immigrazione, e alla fine dei 100 giorni il muro con il Messico sarebbe già progettato, il bando all'ingresso dei musulmani nel Paese applicato, il processo per revocare Obamacare avviato. «So che la gente non sa bene che tipo di presidente sarà Donald Trump - spiega il miliardario al New York Times - Ma andrà tutto bene. Non corro per la Casa Bianca con lo scopo di rendere instabile il Paese». «Lavorerò dal primo giorno con il mio vicepresidente e il mio staff per garantire che l'America cambi in molti modi, per il meglio - aggiunge - Non possiamo permetterci di perdere tempo. Il messaggio sarà molto chiaro».

Intanto The Donald comincia a costruire la squadra con cui nei prossimi mesi cercherà di mettere al tappeto la rivale democratica Hillary Clinton. La prima nomina di peso è quella di Steven Mnuchin, noto manager nel settore degli investimenti privati, scelto come responsabile finanziario della sua campagna, ossia colui che si occuperà della raccolta fondi. Ma in un'amministrazione Trump - spiega a Fox - potrebbero trovare posto anche Rudy Giuliani come segretario alla Sicurezza Nazionale, Chris Christie come ministro della Difesa e Ben Carson come segretario alla Sanità. Mentre per la vice presidenza creerà un comitato ad hoc per valutare i possibili numeri due.

Nonostante il suo programma rifletta in qualche modo le posizioni forti e in alcuni casi radicali illustrate durante la campagna elettorale, il linguaggio del tycoon è senza dubbio diverso da quello irriverente e talvolta offensivo sentito in comizi e dibattiti. Ormai Trump parla da presidente, o quanto meno ci prova, ed è per questo che fa ancora più paura. Tanto da dividere in maniera profonda il Paese tra chi lo considera un'icona anti-sistema, ultimo bastione a difesa del popolo dei delusi dalla politica tradizionale, e da chi invece reputa l'ipotesi di vederlo alla Casa Bianca come un vero e proprio delitto per la nazione. Tra questi ultimi c'è il clan Bush, espressione dell'establishment del partito, che con Jeb ha tentato di giocarsi l'ultima carta del «correntone» tradizionale. Gli ex presidenti George W. Bush e George H.W. hanno fatto sapere che non daranno il proprio sostegno al «presunto» candidato del Grand Old Party: un no, il loro, che è il riflesso della contrapposizione tra i vertici Gop e il fenomeno Trump.

Ma contro di lui si sono schierati anche tanti artisti. Dopo Adele, il frontman degli Aerosmith Steven Tyler e Neil Young, anche i Rolling Stones in un comunicato hanno intimato al magnate di astenersi «con effetto immediato» dall'usare la loro musica in campagna elettorale. L'attrice Eva Longoria, invece, ha esortato i cittadini ispanici ad andare a votare per impedirgli di arrivare alla Casa Bianca. Più si accorcia il cammino verso il voto dell'8 novembre, insomma, più cresce il fronte del no, più il miliardario incassa vittorie a mani basse ai quattro angoli del Paese, più l'America è divisa tra chi lo detesta e chi gli dà fiducia. Eppure per lui sono i numeri a parlare: quelli degli Stati vinti, dei voti ottenuti e dei delegati conquistati (ad oggi 1.053, vicino al quorum di 1.237 necessario per la nomination). Numeri dinanzi ai quali anche i riluttanti vertici del partito repubblicano si devono piegare.

In primis lo stesso presidente Reince Preibus, più volte accusato di aver sottovalutato il fenomeno Trump e di non essere stato in grado di imbrigliare il tycoon newyorkese, e che ora gli rende l'onore delle armi invitando il partito e gli elettori a unirsi sotto un'unica bandiera, quella dell'elefante del Grand Old Party. Anche se a portare il vessillo è forse il personaggio più controverso che il Gop abbia mai avuto tra le sue fila.

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