New York - Deal o non deal? Accordo o non accordo? È questo l'interrogativo che tiene col fiato sospeso il mondo intero all'indomani della nomina di John Bolton come consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa al posto di H.R. McMaster. L'accordo in questione è quello con l'Iran, la cui fine potrebbe essere imminente con l'arrivo nell'amministrazione Usa del falco conservatore. «Sono molto grato per il servizio del generale McMaster, che ha fatto uno straordinario lavoro e resterà sempre mio amico», ha affermato il presidente Donald Trump annunciando il nuovo rimpasto su Twitter, e precisando che «ci sarà un passaggio di consegne ufficiale il 9 aprile». La versione della Casa Bianca è che si tratta di dimissioni concordate, poiché' il generale a tre stelle andrà in pensione, ma in realtà il tycoon si è scontrato varie volte con McMaster, favorevole a una linea tradizionale filo atlantica e a un approccio diplomatico alle varie crisi. Una figura decisamente diversa da quella di Bolton, a partire proprio dall'intesa sul nucleare, di cui quest'ultimo è un forte critico. Come Trump d'altronde, che lo ha definito il peggiore accordo possibile.
Ex ambasciatore americano all'Onu durante la presidenza di George W. Bush, Bolton ha sostenuto l'uso della forza militare contro l'Iran e la Corea del Nord. Sin dai primi incarichi nell'amministrazione di Ronald Reagan negli anni Ottanta si è dimostrato un sostenitore della linea dura, oltre a essere uno dei più ferventi fautori dell'invasione dell'Irak nel 2003. E ora diventerà il terzo consigliere per la Sicurezza Nazionale dopo McMaster e Michael Flynn, costretto alle dimissioni a meno di un mese dalla nomina nell'ambito delle indagini sul Russiagate. Con l'ultimo avvicendamento il tycoon ha messo in mano la politica estera degli Stati Uniti ad una triade di paladini della linea dura: oltre Bolton c'è Mike Pompeo, che sostituirà a fine mese Rex Tillerson come segretario di stato, e l'ambasciatrice al Palazzo di Vetro Nikki Haley. Lasciando il segretario alla Difesa Jim Mattis sempre più solo nel sostenere posizioni più diplomatiche, soprattutto su Iran e Nord Corea. Intanto, dopo aver minacciato su Twitter di porre il veto alla legge di bilancio da 1.300 miliardi di dollari passata a Capitol Hill per evitare lo shutdown, Trump ha siglato il provvedimento. «Ho firmato per una questione di tutela della sicurezza nazionale - ha detto alla Casa Bianca, facendo riferimento all'aumento dei fondi per la Difesa - ma c'è molto che non mi piace in questo documento. Ci sono molte cose che non mi vanno bene e ho detto al Congresso che non firmerò mai più un testo del genere», ha aggiunto il Commander in Chief. Soltanto un paio d'ore prima aveva spiegato di prendere in «considerazione un veto sulla legge di spesa per il fatto che gli oltre 800mila interessati dal Daca», il programma di protezione per i dreamer, «sono stati totalmente abbandonati dai democratici e il muro al confine col Messico, che è disperatamente necessario per la nostra difesa nazionale, non è pienamente finanziato».
E pochi giorni dopo la visita del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman alla Casa Bianca, l'amministrazione Trump ha approvato la vendita di una commessa di armamenti da un miliardo di dollari a Riad, che include oltre 6.500 missili Tow 2B, pezzi di ricambio di carri armati, elicotteri e altri mezzi Usa già presenti nell'arsenale dell'Arabia Saudita, nonché servizi di supporto e manutenzione.
Il Congresso ora ha 30 giorni di tempo per approvare o meno il pacchetto di armi, che potrebbero essere impiegate soprattutto nel conflitto con lo Yemen, dopo che il Senato quattro giorni fa aveva bocciato una risoluzione sull'uscita di Washington dalla coalizione a guida saudita che combatte contro il martoriato Paese.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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