Bussare alle porte dei dicasteri per sapere cosa bolle nella pentola del governo è tempo sprecato. Gli staff dei ministeri che fino al gennaio scorso si facevano in quattro per tradurre le idee del titolare o del premier in testi di legge sono praticamente disoccupati. Persino la Ragioneria generale dello Stato ha smesso di produrre quei menù dai quali i politici dell'era pre Renzi sceglievano il piatto meno indigesto per i cittadini. Cambiavano le pietanze, restava fermo il prezzo, in termini di entrate o uscite per le casse pubbliche. Tutto passa per Palazzo Chigi, sempre più modello «cabinet» del presidente Usa, soprattutto ora che nella sede della presidenza si sono materializzati i consulenti economici di Renzi. Ma non sono solo loro ad essere entrati nella stanza dei bottoni scalzando i titolari dei ministeri.
Basti pensare alla sorte del ministero del Lavoro, escluso da ogni iniziativa sull'articolo 18, il cuore del Jobs Act. «È una questione politica» ha spiegato giorni fa il ministro Giuliano Poletti, facendo intendere che il nodo licenziamenti è simbolico e che quindi la sostanza va cercata altrove. Peccato che la riforma dei licenziamenti sia centrale per le imprese grandi e, soprattutto, piccole, tanto che Confindustria ha abbandonato ogni prudenza ed è scesa in campo per sostenerla.
Imprenditori e politici che nei giorni scorsi volevano conoscere il dettaglio di cosa ne sarà della «reintegra» potevano tranquillamente saltare il ministero del Lavoro per rivolgersi al Nazareno, sede del Pd, ufficio del renzianissimo Filippo Taddei, macroeconomista, docente alla Johns Hopkins University Sais, ricercatore del Collegio Carlo Alberto. Curriculum da giovane superministro, per ora solo responsabile economia e lavoro del Pd. È stato lui a spiegare che sui licenziamenti disciplinari resterà la possibilità di reintegrare, ma sarà rafforzata la conciliazione e, forse, in super indennizzo (più soldi) per i licenziati senza giusta causa. Ma la lista dei ministri senza poltrona non si ferma a Taddei. A leggere bene alcune novità sulla formazione professionale (meno discrezionalità di spesa alle Regioni) si riconosce la mano di Maurizio Sacconi, ex ministro del Lavoro dei governi Berlusconi, oggi Ncd.
È noto che ormai le decisioni chiave della legge di Stabilità passano soprattutto da Palazzo Chigi dove si sono insediati i sette saggi, economisti nominati da Renzi. Sono Alessandro Santoro, Marco Fortis, Roberto Perotti, Giampiero Gallo, Yoram Gutgeld, Riccardo Luna e Paolo Barberis. Stilano le proposte, dettagli compresi, che caratterizzeranno la politica economica dei prossimi mesi, dal Tfr in busta paga alla rimodulazione del bonus da 80 euro a favore delle famiglie, fino al taglio Irap. Difficile capire chi sia il titolare dell'economia quando la voce più autorevole sul tema è Gutgeld, coinvolto, insieme agli altri consulenti della presidenza del Consiglio, anche nelle decisioni politiche, come mettere la fiducia o meno sul Jobs Act.
Per non parlare della spending review. Molto ridimensionata rispetto agli obiettivi (poco realistici) che erano stati dati a Cottarelli. Nei mesi scorsi il ministro Pier Carlo Padoan si era mostrato irritato per alcune scelte del commissario ai tagli. Cottarelli lascerà ma la sede della spending review non sarà il ministero dell'Economia. Il nuovo commissario diventerà materia di Palazzo Chigi. Forse se ne occuperà lo stesso Gutgeld. Sovrapposizioni con il ministero dell'Economia anche con Santoro, esperto di fisco.
Luna e Barberis (rispettivamente giornalista e fondatore di Dada, società di registrazione domini), invece, sono in concorrenza con il ministro Madia, ma anche con Federica Guidi visto che si occupano di digitale. Quasi un gabinetto della Casa Bianca con dipartimenti strettamente legati al presidente. Con la sola differenza, che da noi sopravvivono anche i vecchi ministeri.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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