La confusione che imperversa in queste settimane che ci separano dal varo della legge di Bilancio 2017 è figlia degli insuccessi purtroppo numerosi delle politiche economiche messe in atto dal governo Renzi. Ieri è toccato all'Inps certificare il crollo dei contratti a tempo determinato confermando, in ultima istanza, che l'effimero successo del Jobs Act era legato ai fortissimi sgravi contributivi (15 miliardi circa su base triennale) concessi nel 2015. Terminati quei bonus e ridotta di oltre la metà la provvidenza concessa alle aziende, queste ultime non hanno avuto più convenienza ad assumere personale anche perché l'economia ristagna. Lo testimonia anche l'impatto minimo del bonus da 80 euro (10 miliardi all'anno) sui consumi e, dunque, sulla crescita. È fallita - ma non poteva esser altrimenti - l'idea di usare le casse dello Stato come mezzo per stimolare la produttività: si sono aumentati i costi e non si sono ridotte le spese, visto che la spending review è rimasta in qualche slide. Perché Matteo Renzi finora ha fatto flop? Perché sia le microiniziative per flessibilizzare i pensionamenti (come il part-time agevolato) o per aumentare il reddito disponibile (Tfr in busta paga) che i progetti di sistema, come la gestione controllata delle sofferenze bancarie, si sono risolti in un nulla di fatto. «Flop», pertanto, è la parola giusta per lo spreco di tempo e di risorse.
Gli 80 euro? Niente rilancio per i consumi
Il bonus da 80 euro mensili per chi guadagna fino a 26mila euro lordi al mese è stato introdotto nel maggio del 2014. È costato 6,6 miliardi nel primo anno e 10 miliardi circa a regime nel 2015 e in quello corrente. A fronte di questo sforzo non indifferente, la spesa per consumi delle famiglie è cresciuta dello 0,2% tendenziale nel 2014 e dello 0,5% nel 2015, portando comunque un modesto contributo alla crescita del Pil, come si può evidenziare anche dai dati dell'anno in corso che lasciano intravedere un rallentamento della crescita. Bisogna, perciò, mettere in questione la validità della misura se l'Istat stesso nei suoi rapporti evidenzia come il reddito disponibile delle famiglie sia aumentato, soprattutto in virtù dei processi deflazionistici in corso e non per merito degli 80 euro. Una legge fondamentale dell'economia evidenzia che i percettori di redditi medio-bassi tendono ad accumulare le maggiori disponibilità per fronteggiare eventuali imprevisti. Forse 26,6 miliardi (36,6 se consideriamo il 2017) potevano essere spesi diversamente.
Troppe tasse il Tfr in busta paga scelto solo dall'1%
Tra le varie misure renziane il flop maggiormente prevedibile era sicuramente il Tfr in busta paga. La Fondazione Consulenti del Lavoro, analizzando un campione di circa 900mila lavoratori, ha stimato che solo lo 0,74%, cioè 6.712 persone, si sia avvalsa della facoltà di percepire ogni mese l'accantonamento aziendale. Il motivo è presto spiegato: il Tfr in busta paga è tassato ad aliquota marginale e diventa conveniente solo per coloro che percepiscono meno di 15mila euro lordi annui in quanto rientrano nello scaglione Irpef più basso. Per tutti gli altri il salasso non è da poco e così, ricordano i consulenti del lavoro, il 52% ha scelto di non aderire alla proposta, mentre un altro 40% ha preferito lasciare la somma lì dov'è o per assicurarsene il flusso alla previdenza complementare o per godere di un «gruzzolo» alla fine dell'attività lavorativa. Bisogna, infatti, ricordare che il Tfr viene tassato ad aliquota marginale media per la parte accumulata, mentre la sua parte di rivalutazione è tassato con un'aliquota «di favore» al 17 per cento.
Spending review: tanti commissari ma pochi tagli
Finora Matteo Renzi ha «segato» due commissari alla revisione della spesa: Carlo Cottarelli e Roberto Perotti. Entrambi avevano individuato una montagna di spese pubbliche potenzialmente aggredibili: Cottarelli l'aveva stimata in 34 miliardi di euro, Perotti era stato più prudente. I risultati sono stati modestissimi, anche perché le soluzioni proposte erano sgradite al presidente del Consiglio, desideroso di non perdere consenso spendibile in chiave elettorale (col bonus da 80 euro Renzi ha preso il 40,8% alle Europee). Il risultato è che nella Stabilità 2016 figurano tagli per circa 5 miliardi, fatti in maniera abbastanza lineare, «alla Tremonti» per intendersi, sui ministeri. L'anno prossimo si intenderebbe alzare l'asticella a 6 miliardi ma nel calderone rientrano anche i risparmi ottenuti centralizzando gli acquisti della Pa, una procedura la cui efficacia non è del tutto accertabile e che soprattutto richiede molto più tempo per essere valutata. La misura del flop? Una pressione fiscale scesa solo di qualche decimo di punto percentuale.
Il part time non è agevolato dalla burocrazia
Il part time agevolato è una novità introdotta dalla manovra per il 2016. Si tratta di uno dei progenitori dell'anticipo pensionistico e consente a un lavoratore che maturi entro il 2018 i requisiti anagrafici per il pensionamento di vecchiaia, ma abbia già quelli contributivi di ridurre l'orario lavorativo tra il 40 e il 60%, godendo di contributi figurativi esentasse che coprirebbero pienamente il «buco» che si verrebbe a creare. La misura, però, non ha ottenuto il successo sperato: su 357 istanze presentate all'Inps dall'inizio (nel giugno scorso) ne è stato bocciato il 45%, cioè 160. L'eccessiva burocraticità della procedura è uno svantaggio. Sono infatti previsti tre passaggi: bisogna presentare domanda all'Inps per ottenere la certificazione dei requisiti, una volta ottenuta ci si siede al tavolo con l'azienda per stipulare un nuovo contratto part-time che dovrà essere poi registrato alla direzione territoriale del Lavoro. E pensare che la Stabilità aveva stanziato 240 milioni per il 2016-2018 pensando che vi avrebbero aderito 10mila persone all'anno.
Per creare lavoro meglio gli sgravi del Jobs Act
Da febbraio 2014 a luglio 2016 il tasso di disoccupazione in Italia è sceso dal 12,7 all'11,4 per cento. I dati consentono di affermare che il successo del Jobs Act è stato inferiore alle aspettative, soprattutto se si considera che la percentuale di giovani tra i 15 e i 24 anni senza lavoro resta sempre molto elevata (39,2%). La dinamica macroeconomica generale (produzione industriale calante, inflazione tendente allo zero e Pil verso la stagnazione) lascia pensare che la creazione di nuovi posti di lavoro sia legata soprattutto alla fortissima decontribuzione triennale (100%) per i neoassunti nel 2015. Quest'anno lo sgravio è sceso al 40% e, come ha testimoniato ieri l'Inps, i contratti a tempo indeterminato nei primi sette mesi dell'anno sono crollati del 33,7 per cento. Cifre consonanti a quelle diffuse dal ministero del Lavoro dieci giorni fa che sottolineavano un incremento del 7,4% dei licenziamenti. Ecco perché, in vista della legge di Bilancio 2017, è apertissimo il dibattito su come conservare almeno parzialmente quei costosissimi incentivi.
Crediti deteriorati e nuovo "bail in": errori a catena
Tralasciando l'eccessiva ingerenza di Renzi sulle questioni bancarie (da Etruria a Monte Paschi) che, per loro natura, dovrebbero essere affidate al mercato, non si può non rimarcare come il governo abbia fallito sull'unico argomento sistemico sul quale era chiamato a intervenire. L'italica trascuratezza verso le materie europee ha fatto sì che l'Italia recepisse passivamente le severissime regole sul «bail in», i salvataggi bancari con coinvolgimento degli azionisti. Dimenticando che, senza interventi sistemici, i nostri istituti di credito sarebbero crollati sotto il peso di circa 200 miliardi di «non performing loans».
Da inizio anno l'esecutivo Renzi ha varato un decreto per la garanzie pubbliche sulle cartolarizzazioni, uno per creare una sorta di «Fondo Atlante-bis» con la bad bank del vecchio Banco di Napoli e si è attivata presso la Bce per la garanzia pubblica sulla liquidità degli istituti solvibili. Risultato? I 200 miliardi di sofferenze sono ancora lì e la ricapitalizzazioni di Mps (e anche quella di Unicredit) si svolgerà in un clima di incertezza- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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