Milano - Eh sì: sono passati venticinque anni, non gliene importa (fortunatamente) più niente a nessuno, e l'aula magna del tribunale, poche ore prima gremita per un convegno sul cyberbullismo, si svuota dolorosamente quando si comincia a parlare di Mani Pulite. A popolare le rade sedie occupate una platea di trentuno persone, giornalisti esclusi. Ma in fondo va bene così, perché questo permette a Piercamillo Davigo di ripetere l'aforisma sulle prede e i predatori («abbiamo catturato le zebre lente, abbiamo affinato le specie») senza che nessuno si alzi a protestare per averlo sentito già centodue volte; e, cosa forse più grave, che lo stesso Davigo possa dire impunemente che «ho visto assoluzioni che gridano vendetta, il codice è scritto per farla fare franca ai farabutti», e amen se il codice l'ha scritto uno che si chiamava Gian Domenico Pisapia.
Va in scena così, come una piece un po' fuori moda, l'anniversario di Mani Pulite, in quella stessa aula magna in cui Francesco Saverio Borrelli lanciò il suo proclama, «resistere-resistere-resistere» tra le ovazioni dei suoi pm. Poche facce, qualche sopravvissuto: «Siamo l'associazione combattenti e reduci», scherza Di Pietro. Combattenti e reduci però tutti della stessa parte, magistrati e cronisti un tempo risolutamente schierati al loro fianco; la voce degli sconfitti, gli arrestati, i pochi avvocati con la schiena dritta, nessuno ha pensato che valesse la pena sentirla; ma d'altronde a organizzare il tutto è una associazione di marcate simpatie grilline, e grillino è l'unico politico seduto sul palco: e anche questo va bene, perché così si possono inanellare allegramente strafalcioni storici e giuridici, dicendo che il decreto Biondi del luglio 1994 venne fatto per liberare Paolo Berlusconi, che all'epoca era già libero da un pezzo, o persino che la legge Severino è stata fatta per salvare Silvio Berlusconi e Filippo Penati. Balle un tanto al chilo per una claque depressa.
Della sala deserta, gli organizzatori danno la colpa a un fantomatico complotto ordito ai loro danni. Vabbè. Di Pietro invece si consola spiegando che l'altro giorno a Borgomanero la sala era piena, e comunque «c'è la desolazione dell'opinione pubblica che non crede più che possa cambiare qualcosa»; ma non spiega cosa la famosa opinione pubblica sarebbe dovuta venire a capire, visto che non c'è l'ombra di una autocritica e nemmeno di una analisi, «noi eravamo le guardie e loro i ladri», punto e fine. Di Pietro ritira fuori la storia di quando il Sisde lo spiava e dossierava per fermarlo, spiega che Mani Pulite venne bloccata quando iniziò ad occuparsi di mafia e politica, insomma niente di nuovo sotto il sole. «La tangente Enimont - dice - era di centocinquanta miliardi, ne abbiamo trovati settanta, gli altri che fine hanno fatto?», e fa la faccia di chi conosce benissimo la risposta. «Abbiamo esagerato con le scarcerazioni», dice serio Davigo.
Erano anni che Di Pietro non metteva piede a Palazzo di giustizia. A sentirlo non è venuto neanche uno dei suoi ex colleghi.
(Mezz'ora prima del convegno, al bar sotto il tribunale. Di Pietro, che in fondo era il meno cinico del pool, mangia un boccone con un vecchio amico.
Antonio, vista come è finita, rifaresti tutto? «Il magistrato sicuramente sì. Sul fatto che dopo mi sono messo a fare politica ci penserei due volte la prossima volta». Beh, potevi continuare a fare il magistrato... «Se non mi dimettevo andava a finire che mi arrestavano»).
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.