Usa, disastro ostaggi: uccisi nel blitz

Attacco con i droni in Yemen ma Al Qaida elimina un americano e un sudafricano che stava per essere liberato

Usa, disastro ostaggi: uccisi nel blitz

É un triplice gigantesco fiasco. Militarmente inaccettabile per l'evidente assenza delle informazioni d'intelligence indispensabili per garantire un rischio accettabile. Umanamente imperdonabile perché conclusosi non solo con la morte dell'ostaggio americano, ma anche con quella di un prigioniero sudafricano di cui gli americani ignoravano l'esistenza. Politicamente grottesco perché arrivato tre settimane dopo la promessa di Barack Obama d'adottare misure più adeguate per la salvezza degli ostaggi americani nelle mani dei terroristi. Il blitz, destinato a venir ricordato come uno dei più plateali insuccessi militari americani inizia all'una di venerdì notte. A quell'ora una squadra di forze speciali raggiunge i margini del villaggio yemenita di Wadi Abadan, nella provincia meridionale Shabwa, e punta verso alcuni edifici circondati da alte mura di terra. Il villaggio è già stato «cinturato» da un centinaio di soldati yemeniti e l'operazione è seguita in diretta dal Pentagono grazie alle telecamere termiche e agli infrarossi dei droni in volo sulla zona. Un rumore imprevisto, forse il latrato di un cane, mette però in allarme i militanti di Al Qaida dispiegati lungo il perimetro dell'edificio. A quel punto è l'inferno. I militanti individuano i militari americani e aprono il fuoco. Le forze speciali accelerano i tempi e avanzano sotto il fuoco mentre i droni li coprono con il lancio di missili. Il problema a quel punto, stando alle indiscrezioni dei media statunitensi, è la mancanza d'informazioni. Le forze speciali ignorano in quale edificio si trovi l'ostaggio americano e non sanno quindi dove puntare. Lo scoprono solo quando le telecamere dei droni riprendono un militante che abbandona il perimetro di difesa, corre verso una delle costruzioni e ritorna subito dopo. Quanto basta a scaricare un kalashnikov sull'ostaggio Luck Somers, il 33enne fotografo americano rapito nella capitale yemenita di Saana lo scorso anno, e su Pierre Korkie, un insegnante sudafricano caduto pure lui nelle mani di Al Qaida. Tra quei due sventurati prigionieri a terra in un lago di sangue corre una sostanziale differenza. Luck Somers è un condannato a morte di cui Al Qaida ha annunciato l'imminente uccisione dopo il rifiuto di Washington di trattarne il rilascio. Pierre Korkie è invece pronto per il rilascio dopo le trattative condotte da «Gift of the Givers» un'organizzazione sudafricana che ha già riportato a casa Yolande, la moglie di Pierre rapita con lui quasi due anni fa. La mancanza d'informazioni sul secondo prigioniero o, chissà, la scelta ancor più deprecabile di agire ugualmente per privilegiare la salvezza dell'americano finiscono con l'accomunare i destini di Luck e di Pierre.

Quando le forze speciali penetrano nella prigione i due sono già agonizzanti. Uno spira sul V 22 Osprey con a bordo un equipe medica decollato trenta minuti dopo l'inizio del blitz, l'altro si spegne su un tavolo operatorio della nave Makin Island in navigazione al largo delle coste yemenite. La loro morte solleva, però, un coro di proteste indignate. In Sudafrica «Gift of the givers» afferma che i mediatori yemeniti erano pronti a prendere in consegna l'ostaggio: «Coraggio, l'attesa è finita» avevano informato la moglie in mattinata, ora sconvolta dal tragico epilogo della vicenda. L'America s'interroga invece sull'efficienza di un apparato d'intelligence e forze speciali su cui l'Amministrazione Obama sta investendo miliardi di dollari nella convinzione di poter rinunciare agli interventi militari tradizionali. Il fiasco di venerdì notte segue, inoltre, di pochi giorni un altro fallito tentativo di liberare Somers e le inconcludenti incursioni siriane della scorsa estate quando le forze speciali non riuscirono a salvare James Foley e gli altri quattro ostaggi decapitati nei mesi successivi.

Ma il disastro yemenita moltiplica anche lo scetticismo nei confronti di un presidente che tre settimane fa, dopo l'ennesima decapitazione, aveva promesso maggior impegno e maggiori garanzie per riportare a casa gli ostaggi americani. Forse era meglio tacere. Forse era meglio - come già dopo l'uccisione di Foley - lasciar perdere gli ostaggi e darsi più semplicemente al golf.

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