Vincere la battaglia contro l'odio antisemita

Vincere la battaglia  contro l'odio antisemita

Il 2 ottobre di sette anni fa moriva Marek Edelman, il «guardiano della memoria» del Ghetto di Varsavia. Aveva novant'anni e per decenni, a mezzogiorno di ogni 19 aprile, aveva posato dei narcisi gialli davanti al Monumento agli eroi dell'insurrezione che come lui si erano ribellati ai nazisti. Era uno dei pochi superstiti del Ghetto, ma ripeteva sempre: «Non fate di me un eroe». In seguito si dedicò a tenere viva la memoria, perché «bisogna ricordarsi di quelle donne, bambini, uomini vecchi e giovani che sono svaniti nel nulla, assassinati senza ragione e senza senso». Credeva fermamente che si dovesse «insegnare nelle scuole, negli asili, nelle università, che il male è il male». Perché il male «può crescere senza preavviso».

Per questo ho riunito ieri a Bruxelles, nella mia qualità di vicepresidente del Parlamento europeo con delega al dialogo inter-religioso, i vertici delle istituzioni europee e delle comunità ebraiche per discutere sul futuro degli ebrei. Abbiamo ribadito che gli ebrei devono poter vivere serenamente in Europa, perché senza ebrei l'Europa non è Europa. Ma per evitare che il male cresca e si diffonda, occorre anzitutto riconoscerne l'esistenza e denunciare l'antisemitismo, questo virus che si riproduce moltiplicando le proprie maschere.

L'errore più grande consiste nell'illusione che l'Europa ne sia immune, l'antisemitismo è vivo persino là dove le persecuzioni hanno annullato la presenza ebraica. L'Europa rischia di essere impoverita nella propria storia e cultura da un esodo minuzioso ma costante di ebrei che va scongiurato.

Gli attentati terroristici degli ultimi anni hanno colpito duramente gli ebrei. Accanto alle stragi di Tolosa, Parigi e Bruxelles, c'è stato uno stillicidio di aggressioni simbolicamente altrettanto gravi, come gli accoltellamenti di Milano o Strasburgo. Quasi che portare la Kippah fosse di per sé un atto temerario, un gesto di sfida. Gli ebrei devono poter indossare i simboli della propria fede e identità senza rischiare di essere aggrediti o uccisi.

I numeri parlano da soli. Da tutta Europa, secondo la Jewish Agency, nel 2015 quasi 10mila ebrei (9.988) si sono trasferiti in Israele. Ottomila solo dalla Francia, il doppio rispetto al 2014, ed è raddoppiato il numero di atti antisemiti. Nel 1991, in Europa erano 2 milioni, nel 2010 un milione e 400mila. Aumentano crimini d'odio e atti razzisti censiti dall'Osce. In Germania, oggi un modello di contrasto all'antisemitismo, in un anno sono passati da 4.647 a 7.858. Difendere la presenza ebraica significa preservare i nostri valori, le radici giudaico-cristiane che definiscono la nostra identità di europei.

Proprio per non dimenticare, il Parlamento e le altre istituzioni europee promuovono l'informazione sulla Shoah e le visite a campi di concentramento e ai musei ebraici. Primo Levi scrisse della «infezione latente» e del male di pensare che «ogni straniero sia nemico». Finché quella concezione sussiste, argomentava, «le conseguenze ci minacciano». In fondo alla catena che parte da quel dogma c'è il lager.

Il male può ripetersi. L'antidoto consiste nel ricordare, guardando però al futuro. Come ha detto un ospite d'eccezione al nostro incontro a Bruxelles, Lord Jonathan Sacks, «Quello che siamo dipende da ciò che ricordiamo» e in Occidente, un fallimento della memoria collettiva «determina un pericolo reale e presente per il futuro della libertà».

Al fine di debellare il virus dell'antisemitismo ci conforta l'intervento di Bernard Henri-Levy, per il quale la battaglia è a buon punto rispetto al passato.

Oggi, infatti, la percezione comune di parole e gesti discriminatori verso gli ebrei è quella di una immediata e totale condanna, sia nella coscienza della pubblica opinione, sia tra le classi dirigenti.

Antonio Tajani,
Primo vicepresidentedel Parlamento Europeo con delega al dialogo inter-religioso

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