Se il contesto non fosse tragico, verrebbe da pensare a Destinazione Piovarolo: film del '55 in cui Totò interpreta Antonio La Quaglia, capostazione dell'epoca fascista. Nel suo ufficio il massimo della «modernità» è un telegrafo senza fili e un telefono a manovella con cui La Quaglia comunica al collega della fermata successiva il passaggio dell'unico «accelerato». Colloquio che, quasi a un secolo di distanza, ricorda quello che si sono scambiati (o almeno si sarebbero dovuti scambiare) i capostazione dei due treni tra Andria e Corato finiti sullo stesso binario della morte.
Nell'epoca dell'ipertecnologia, sulla tratta delle Ferrovie nord baresi tra Ruvo di Puglia e Barletta, teatro della sciagura dell'altroieri, la «sicurezza» è ancora regolata dal sistema noto come «blocco telefonico», attivo dagli anni '50 e «gradualmente abbandonato» come principale sistema di distanziamento a favore di sistemi più automatizzati e ritenuti sicuri. Un «graduale abbandono» che evidentemente non riguarda la Puglia e gran parte delle regioni del Sud dove ancora quasi tutti i treni «locali» viaggiano su «binario semplice» (cioè un binario unico). Con la modalità del blocco telefonico, lo stop and go dei due convogli passa attraverso «dispacci» (termine che rimanda più a una trincea della Grange guerra che a una moderna stazione ferroviaria del 2016) registrati di via libera.
Le comunicazioni avvengono tra due «Dirigenti di Movimento». Nelle tratte a binario semplice il primo addetto manda la richiesta al collega della stazione successiva con il messaggio: «Dopo giunto mia stazione treno (numero) chiedo inviare treno (numero)»; laa concessione del via libera dalla stazione vicina arriva solo dopo che il treno si arrivato completo nella propria stazione, appunto con il messaggio: «Via libera treno (numero)»; a quel punto arriva la conferma e il successivo via libera: «Giunto vostra stazione treno (numero) via libero treno (numero)». Roba antidiluviana, ma che teoricamente - molto teoricamente - dovrebbe avere almeno il pregio di metterci al sicuro dagli «impazzimenti» di quei sistemi all'avanguardia che però, quando vanno in tilt, causano ugualmente disastri. E invece nell'apocalisse tra gli ulivi pugliesi proprio questa specie di «garanzia» preistorica è stata all'origine della strage. Uno dei due capostazione non ha comunicato, o ha comunicato male, al collega. E alla fine i due macchinisti si sono trovati l'uno dinanzi all'altro al massimo della velocità. Impossibile, in quelle condizioni, perfino frenare. Si poteva solo chiudere gli occhi e affidare l'anima a Dio.
Nella ridda delle ipotesi post sciagura, qualcuno aveva anche dato la colpa ai «ladri di rame» che, rubando il prezioso metallo dalle canaline ferroviarie, avrebbero mandato in «cortocircuito» il sistema operativo. Ipotesi che non sta in piedi, considerato che l'asportazione di rame non comporta nel modo più assoluto problemi di sicurezza alla circolazione dei treni, ma solo rallentamenti e ritardi. La sottrazione del materiale, infatti, provoca l'attivazione istantanea dei sistemi di sicurezza che governano le tecnologie in uso nella gestione del traffico ferroviario, con arresto immediato.
Ciò non toglie però che il fenomeni dei ladri dell'«oro rosso» rappresenti una grave emergenza: milioni di euro di danni, autostrade improvvisamente al buio, ospedali a rischio, corse dei treni saltate.
«I furti di rame costano, non solo in termini di soldi ma anche e soprattutto in considerazione dei danni collaterali. Basti pensare a un blackout in sala operatoria durante un intervento chirurgico, all'interruzione delle linee telefoniche o alla sospensione di una tratta ferroviaria.
Le aziende subiscono perdite enormi», sottolinea Maria Teresa Sgaraglia, capo del servizio «analisi criminale» della direzione centrale della Polizia Criminale.La pena prevista per chi ruba l'«oro rosso» è la reclusione da uno a sei anni. Questo in teoria. In pratica la fanno franca quasi tutti.
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