Cronache

Le vite al bivio sui due lati del marciapiede

I due lati della strada: di qui si gioca, di là si muore. Lui di qui, in bicicletta, col papà che gli cammina accanto, di là la mamma, col fratello di cinque anni e la sorella, la minuscola sorella di un anno, travolti dalle macerie del crollo

Le vite al bivio sui due lati del marciapiede

I due lati della strada: di qui si gioca, di là si muore. Lui di qui, in bicicletta, col papà che gli cammina accanto, di là la mamma, col fratello di cinque anni e la sorella, la minuscola sorella di un anno, travolti dalle macerie del crollo. Il piede che cade dai pedali, le ruote che si fermano, lo stomaco che si spranga e fa passare solo saliva clandestina nelle fauci secche. E poi il niente, lo sguardo fisso verso il nulla. Nove anni e la famiglia che gli muore davanti. L'ex edificio industriale si è accartocciato come un soufflè venuto male, questioni di secondi e loro ci stavano camminando davanti. Il sessanta per cento della sua famiglia passeggiava proprio lì, non un metro più in là, non un attimo prima. Si è staccato il tetto in cemento: il tonfo, i calcinacci, la polvere e loro tre sotto, e lui nel marciapiede accanto. Roba da aver paura a giocare, per sempre. O ad attraversare la strada o a mettere distanza, anche minima, con chi ama. Chissà per quanto, chissà fino a quando. Per tanto tempo, il futuro più distante che riuscirà ad immaginare sarà il respiro successivo. Vorremmo poterlo catapultare tra vent'anni oggi stesso. Quando non sarà passata, ma sarà almeno passato. Invece è qui. In quella che è la sua vita adesso, oggi, domani... i giorni come una siepe di lauri tutti uguali. Lo hanno portato all'ospedale di Gallarate per visitarlo, per controllare che almeno quello che si vede fosse tutto a posto. A posto... ci è andato con suo padre. E immaginiamo quel tragitto, abbracciati e storditi. In silenzio, che è la tintoria dei nostri pensieri. A piangere muti e ad abbracciarsi, toccarsi, loro che ci sono ancora. A specchiarsi negli occhi dell'altro e a vederci la stessa cosa. Sempre. Chissà per quanto, chissà fino a quando. Le mani giunte e le teste basse nel corridoi d'attesa. A pensare a come reinventarsi la vita. A ripensare a come accudirsi adesso e a sopravvivere. Perché per tanto la vita non sarà nient'altro. E dopo. Il peggio viene dopo. A sirene azzittite, a medici e polizia congedati, quando i suoni riprenderanno il loro posto nelle orecchie, dopo i ronzii e le grida e il frastuono del crollo che ancora assorda. Il peggio viene dopo. A mamma e fratelli seppelliti. Con i parenti e la gente che se ne vanno. E tu che rimani, nella tua maledetta vita. E vorresti essere in quella di chiunque altro, in qualunque altrove. Solo perché a metà di un pomeriggio di un qualunque giorno di giugno erano altrove: sull'altro marciapiede. Dall'altro lato della strada. Lui e suo padre di qui, loro di là, dove si moriva. Adesso loro sono dove si resta. E il peggio viene adesso. Adesso che si torna a casa. Tornare a casa... Non torneranno mai più a casa, non nella stessa.

Potranno solo rincasare in loro stessi e quella non sarà una gran reggia.

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