Per la polizia la vittima è stata picchiata a morte da un 16enne

Temono di poter essere rimasti vittime di una giustizia di serie b. E, pur non mettendo in dubbio la versione dei fatti fornita dalla polizia, vorrebbero sapere in maniera più approfondita, dettagliata e precisa, quel che è successo quella terribile notte del 12 febbraio, alla Comasina.
I parenti di Hu Ke Cang - e tutta la comunità cinese - non si danno pace per la fine terribile di quest’uomo mite e per bene, ucciso a 55 anni in via Baldinucci da Will Josue S.B., un 16enne ecuadoriano ubriaco che lo ha pestato selvaggiamente senza una ragione plausibile e senza mai averlo visto prima, semplicemente perché il poveretto passava di lì a piedi, di ritorno dal lavoro e lui, l’assassino, era alterato per il troppo alcol.
Ora il sudamericano, detenuto al carcere minorile Beccaria, è accusato di omicidio volontario. Il signor Hu, infatti, dopo 10 giorni di coma, il 22 febbraio è morto all’ospedale Niguarda. La figlia di 22 anni, che aspetta un bimbo e si è sposata in lacrime a Rovigo quattro giorni dopo il pestaggio dell’adorato padre, è disperata. E stamane che il cadavere dell’uomo verrà sottoposto all’autopsia, la comunità cinese si ritroverà, intorno alle 14, per un momento di raccoglimento in via Baldinucci 14, nel punto esatto dov’è accaduto il pestaggio.
«Mio zio lavorava da anni come lavapiatti al ristorante “La griglia“ di viale Premuda, era benvoluto e rispettato - spiega il nipote Hu Lirui, 26 anni, gestore di un ristorante a Sesto San Giovanni -. Nel tratto di strada dalla fermata del metrò di Dergano e casa sua, in via Bovisasca, intorno a mezzanotte e mezza, è stato preso di mira da quell’ecuadoriano ubriaco che lo ha accusato di aver guardato la sua ragazza. Il pretesto di un ubriaco per attaccar briga, niente di più. Un ubriaco che lo ha rincorso, buttato a terra e pestato: tutto nel giro di pochi attimi perché - così ci ha detto la polizia - gli amici del sudamericano sono intervenuti solo per farlo smettere».
«Noi parenti abbiamo saputo tutto solo il pomeriggio successivo: mio zio aveva in tasca, come unico documento, l’abbonamento dell’Atm e la polizia ha avuto difficoltà a trovarci. Siamo stati noi a farci vivi, quando la voce del pestaggio ha cominciato a girare a Chinatown: il cellulare di mio zio era spento, un segnale non troppo bello».
«All’ospedale era ricoverato in rianimazione, con il volto tumefatto, come se fosse stato sottoposto a chissà quale raffica di calci e pugni - prosegue Hu Lirui -. Non riusciamo ancora a spiegarci come un ragazzo mingherlino, come quel l’ecuadoriano, abbia potuto, nel giro di una manciata di secondi, ridurre in quel modo un uomo che godeva di ottima salute visto che, secondo la polizia, i suoi amici sono intervenuti per farlo smettere.

Ma siamo sicuri, proprio certi, che nessuno voglia coprire nessuno? Che tra quei ragazzi, sentiti dagli investigatori immediatamente dopo i fatti e dichiarati completamente estranei al pestaggio al punto da essere rilasciati senza una denuncia, non ci sia qualcuno che ha aiutato l’assassino di mio zio? Ecco: la mia famiglia vorrebbe tanto avere la certezza di tutto questo. Lo dobbiamo al mio povero zio».

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