Politica

Poteva schiacciarmi, ma mi salvò

Ieri alle 5 del mattino si è spenta la vita di Antonio Gava, uno dei più autorevoli dirigenti politici della Democrazia cristiana tra gli anni Settanta e i primi anni Novanta. Antonio Gava era cresciuto a pane e politica perché figlio di quel Silvio che fu leader del Partito popolare prima e della Democrazia cristiana poi fino agli inizi degli anni Settanta, quando si ritirò dalla vita politica attiva. In quella stagione, infatti, non era politicamente lecito ed eticamente tollerabile che due rappresentanti della stessa famiglia sedessero nel Parlamento della Repubblica.
Negli anni Cinquanta il giovane Gava fu impegnato a contrastare a Napoli il fenomeno laurino che trovava, come ha spiegato ultimamente in un suo libro Marco De Marco, sponda nel Partito comunista napoletano, intento più a combattere la Dc che non il partito monarchico del vecchio comandante Lauro, ritenuto uno dei tanti fenomeni passeggeri della spumeggiante napoletanità. A poco più di trent’anni fu presidente della Provincia, membro della direzione nazionale del partito e deputato dal 1972. Fu capo della segreteria politica di Flaminio Piccoli e più volte ministro con vari governi (Forlani, Craxi, Goria, De Mita e Andreotti) e capogruppo prima alla Camera e poi al Senato. Come la gran parte dei maggiori dirigenti della Dc, fu travolto dalle vicende di Tangentopoli sino a subire l’onta dell’arresto e l’infamante accusa di associazione camorristica dalla quale fu prosciolto dopo anni con formula e piena fino ad avere il risarcimento per ingiusta detenzione. In quegli anni difficili Antonio Gava mostrò per intero non solo la sua fede religiosa, colpito come fu da gravi problemi di salute, ma anche la sua tetragona convinzione della laicità dello Stato, della forza di uno stato di diritto capace di imporsi a minoranze di inquirenti politicizzati e della visione democratico-cristiana della politica che trovava linfa vitale in una molteplicità di valori su cui campeggiava la democrazia in tutte le sue forme. Dentro il partito e dentro le istituzioni.
La figura e l’opera di Antonio Gava furono oggetto di grandi aggressioni perché si soleva mettere sulle sue spalle ogni responsabilità, a cominciare dallo sbarco da una nave proveniente dal Medio Oriente del vibrione del colera nel 1973 per finire alla trattativa con le Br per la liberazione di Ciro Cirillo. Per ragioni di puro potere si dimenticò che lo sbarco del vibrione del colera in quegli anni era un fenomeno che si ripeteva spesso in tantissime città di mare, così come si ignorò che le Br che chiesero il riscatto per liberare Cirillo erano profondamente diverse da quelle che tre anni prima avevano rapito ed ucciso Aldo Moro per non aver visto riconosciuto il proprio ruolo politico.
Nella vita politica di ognuno ci sono limiti ed errori, ma Gava non si sottrasse mai alle sue responsabilità, contrastando con forza ogni esagerazione strumentale e difendendo in ogni occasione le istituzioni repubblicane. Nella sua esperienza di ministro dell’Interno non solo rifiutò il riservato contributo di cento milioni al mese che i servizi segreti volevano dargli, geloso com’era della sua libertà, ma difese fino in fondo quelle istituzioni repubblicane che già erano diventate oggetto di attacchi da parte di forze deviate nei corpi separati dello Stato. Se non fosse stato costretto nel ’90 a dimettersi per ragioni di salute da ministro dell’Interno, quel che accadde tra il ’90 e il ’92, allorquando alcuni tradirono la Repubblica, probabilmente non sarebbe accaduto. Noi fummo all’interno della Democrazia cristiana tenaci oppositori di Antonio Gava, che avrebbe potuto, con la forza che aveva, ridurci, in particolare nei primi anni di impegno politico, al silenzio o addirittura espellerci. Non era questo, però, il costume della Democrazia cristiana, un partito a maglie larghe nel quale chi aveva capacità di tessere la propria tela era sempre in condizione di farlo. La Dc era un grande partito democratico e Antonio Gava onorò sempre quel metodo politico ritenendolo il valore fondante della Repubblica.

Lo onorò in salute e in malattia, in auge e in disgrazia come si conviene a un autorevole dirigente politico di un grande partito di massa.

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