Inamidato dentro una camicia bianca di cotone Thomas Mason come quella che il principe Carlo d’Inghilterra indossava alle seconde nozze, fasciato da un blazer di Canali in fresco di lana con i bottoni d’oro rigorosamente allacciati, strozzato da una cravatta regimental che alterna righe blu e argentee, calzato dai Fratelli Rossetti con mocassini fiocchettati in vitello lucido nero, dopo due ore di amabili conversari sotto i volti del caffè Roverella nel centro di Rovigo, mentre il termometro segna 31 gradi, il professor Marco Rinaldi tradisce un fremito di disagio: «Lei permette? Andrei a incipriarmi il naso». Prego? «Non mi prenda alla lettera: avrei bisogno un attimo della toilette».
A parte l’inopinato e molto obamiano tentativo di stecchire con una manata una mosca importuna che aveva osato planargli sulla manica della giacca, sarà questo l’unico indizio di comune mortalità. Per il resto, un monolito. Culminante in una fitta moquette di capelli neri, perfettamente pareggiati e perfettamente adesi al cranio. Non suda. Non sbuffa. Non strepita. Modi cordiali, ma non affettati. Eloquio monoritmico, ma non monotono. Per metterlo alla prova, azzardo una barzelletta licenziosa. Niente: un sorrisino compìto suona di circostanza e di riprovazione insieme. Perché il professor Rinaldi non può essere nulla di diverso da ciò che ha scelto di essere: un precettore. Dal latino praeceptor, maestro. Anzi, il precettore. L’unico che in Italia si qualifichi come tale con tanto di sito sul Web. L’insegnante privato che l’alta borghesia convoca a domicilio, come facevano un tempo le famiglie nobili, per affidargli l’istruzione e l’educazione dei figli. L’istitutore. L’aio. E se vi vengono in mente l’oio e il peperoncino, vuol dire che non fa al caso vostro.
La sorte sembrava non offrirgli scampo. È nato 33 anni fa ad Adria e abita ad Ariano nel Polesine. Area depressa, bassa che più bassa non si può, terra «svacada nel lùame, rassegnada, descàlsa», stravaccata nel letame, rassegnata, scalza, come la cantava un poeta veneto. E invece guardate che po’ po’ di eminente rampollo ne è venuto fuori. Diploma di licenza e corso di perfezionamento alla Normale di Pisa con 70/70 e lode, a seguire dottorato di ricerca in discipline filologiche, linguistiche e storiche. Laurea in lettere classiche, sempre a Pisa e sempre col massimo dei voti e la lode. Poliglotta: inglese, francese, tedesco. L’italiano come l’avemaria, va da sé. Latino e greco da restare a bocca aperta, come ebbe modo di constatare lo spagnolo monsignor Pablo Colino, maestro emerito della Cappella Giulia nella basilica di San Pietro in Vaticano, che subito lo presentò al cardinale José Saraiva Martins, all’epoca prefetto della Congregazione delle cause dei santi.
Da allora il professor Rinaldi galleggia in paradiso. È uno dei latinisti incaricati di tradurre i decreti di canonizzazione. S’è occupato di un’ottantina fra santi e beati, da padre Annibale Maria Di Francia, fondatore dei Rogazionisti, al cardinale Clemens August von Galen, il vescovo di Münster che dal pulpito tenne testa ad Adolf Hitler. Come postulatore di alcune cause, precisa d’aver svolto «incarichi di rappresentanza, con mandato procuratorio, presso istituzioni e personalità, anche a livello di capi di Stato». Cioè? «Ho interrogato come testimone il presidente Oscar Luigi Scalfaro».
Quando il professor Rinaldi scende dal cielo sulla terra, gli capita d’insegnare latino e materie letterarie («non sono docente di ruolo») in quell’anticamera dell’inferno che è la scuola pubblica, dove il merito fu bandito temporibus illis: quest’anno al liceo scientifico Paleocapa di Rovigo. Una volta tornato a casa, riesce a riprendersi dallo shock soltanto redigendo voci agiografiche per l’Enciclopedia Treccani e componendo odi in latino. Memorabile quella su pergamena dedicata a Benedetto XVI «in occasione del Suo LXXX Genetliaco e del XXX Anniversario della Sua Consacrazione Episcopale», due sole copie rilegate in pelle bianca con stemma pontificio, una per il Papa e l’altra, che mi esibisce orgoglioso, per sé: «Te mitra tergemino decadum ditata decore Praesulis ac Summi cingit adaucta vice...», traducibile con «Te, o Benedetto, cinge la mitra episcopale, resa più preziosa da triplice splendore di decenni e accresciuta dall’ufficio di Sommo Pontefice...», e qui mi fermo per non farmi del male.
Il Santo Padre che ha detto?
«Mi ha fatto rispondere dal suo segretario particolare, monsignor Georg Gänswein. So per certo che ha gradito. Del resto anch’egli, quando frequentava il liceo, componeva epigrammi in greco».
Chi sono stati i più famosi precettori della storia?
«Aristotele per Alessandro Magno. Seneca per Nerone. Erasmo da Rotterdam per Carlo V. Se vogliamo andare nella mitologia, Mentore per Telemaco, figlio di Ulisse e di Penelope».
Seneca non ebbe molto successo.
«Nerone poi crebbe e percorse la sua strada. Ma il governo fu saggio e oculato durante i cinque anni con Seneca come rettore».
Quando ha scelto questa professione?
«È un’idea che ho cominciato a maturare mentre frequentavo la Normale di Pisa. Lei conosce la battutaccia, vero?».
No, quale battutaccia?
«La Normale si chiama così perché chi ci sta dentro non è normale».
Conosce altri precettori?
«Sono l’unico, che io sappia. Però mi contattano individui che vorrebbero entrare in società con me al solo scopo di avvicinare persone influenti».
Lei avvicina solo persone influenti?
«In genere sì. Famiglie che investono sui figli e per le quali l’alto reddito si coniuga con la cultura».
Come i Marcegaglia?
«Non li conosco».
Però il mercoledì e il sabato riceve sull’isola di Albarella di loro proprietà.
«Albarella in questa stagione diventa un’enclave di 12.000 abitanti. È sembrato opportuno offrire ai proprietari delle ville, giovani ma anche adulti, la possibilità di corsi di recupero estivi in lingue straniere, conversazione, galateo».
Che differenza c’è fra un precettore e un insegnante che dà ripetizioni?
«Le ripetizioni non contemplano l’arte di vivere e neppure tutte le materie che presidio io, dall’italiano alla matematica, dal latino all’inglese. Il mio compito è insegnare anche le regole non scritte».
Tipo?
«Come può vedere, oggi indosso una camicia botton-down. È un abbigliamento informale. Ma al Circolo della caccia di Roma me lo farebbero notare: le punte del colletto chiuse da due bottoncini là non sono ammesse. Un ambasciatore dell’Ordine di Malta mi ha confidato d’incrociare colleghi che indossano la botton-down negli incontri ufficiali».
Orrore!
«Prima di diventare eurodeputato del Pd, David Sassoli vestiva la camicia botton-down durante il Tg1 delle 20. Imperdonabile».
Mai alle 8 di sera.
«Certo. Comunque in giro c’è di peggio. Leonardo Visconti di Modrone, capo del cerimoniale diplomatico del ministero degli Esteri, è stato costretto a precisare che la dicitura “cravatta scura” sugli inviti sottintende lo smoking: un alto funzionario del Quirinale s’era presentato a un ricevimento indossando un abito nero con la cravatta nera, come per un funerale».
A lei non sarebbe accaduto.
«Secondo l’ambasciatore dell’Ordine di Malta avrei un avvenire in diplomazia perché so distinguere le finezze del dress code, il codice d’abbigliamento».
Finezze, appunto.
«Convenzioni che risalgono al Congresso di Vienna del 1814, quando l’aristocrazia volle distinguersi dai parvenu del mondo nuovo. Per farlo, riportò indietro di 25 anni l’orologio della storia, a prima della rivoluzione francese. Bisognava tagliar fuori Napoleone e quelli come lui, ignari dei modi di relazionarsi della nobiltà. Risale ad allora l’attuale confusione fra colazione e pranzo».
Non la seguo.
«Coloro che credono di parlare forbito usano chiamare colazione il pasto di mezzogiorno e pranzo quello della sera. Assurdo. La colazione si fa appena svegli, seguono il pranzo e la cena. I nobili chiamavano colazione quella di mezzodì solo perché si alzavano tardi dal letto».
Lei da chi è stato educato?
«Dalla mia famiglia. Padre commerciante, madre casalinga. Non hanno mai dato del tu alla prima persona che incontravano».
Qual è il valore più importante che le è stato trasmesso?
«L’onestà, la correttezza, la giustizia. Tre declinazioni di un unico valore».
Come mai molti genitori non sono più in grado di educare i figli?
«Disporre di tempo per sé e per gli altri è diventato un lusso. In casa ci si vede e ci si parla sempre meno. Le madri lavorano come i padri e dunque non possono occuparsi della prole. È andata in crisi la civiltà contadina».
Costa tanto un precettore?
«Dipende. È un servizio su misura, come un abito. La tariffa minima è 40 euro l’ora. Ma per una lezione privata di galateo arrivo a 120».
La prima regola che impartisce al virgulto?
«Meno ci si fa notare e meglio è».
L’esatto contrario di ciò che insegna la Tv.
«È come per i soldi: chi non ne ha, ne parla sempre. Un lapsus freudiano che compensa un’inadeguatezza. Se voglio farmi notare con un goffo surplus di immagine, è perché non mi sento all’altezza. Ma così si finisce solo per dimostrarsi inaffidabili».
Perde mai l’aplomb?
«Cerco di controllarmi».
L’ultima volta che ha detto una parolaccia?
«Non ricordo. Mi sforzo di non trascendere».
Neppure quando guida?
«Al volante si deve dare il buon esempio».
E quando s’arrabbia in quale esclamazione prorompe? Perdindirindina?
«Mai: è un eufemismo che significa “per Dio”. Al massimo, diamine».
Frequenta i salotti?
«Per motivi professionali, non per passione. Non ho tempo da perdere in pettegolezzi».
Le capita di fallire nella sua missione?
«Sono piuttosto pertinace. Se mi volgo all’indietro, non vedo fallimenti. Solo la gratitudine di molte famiglie e di molti ragazzi».
Ma questi benedetti figlioli non le chiedono: «Lei chi è? Cosa vuole? Che ci fa in casa mia?».
«Al contrario. Benché dia a tutti del lei, il rapporto da formale diventa presto cordiale».
Età degli allievi?
«Fra gli 11 e i 17 anni».
Solo maschi?
«Anche femmine».
Io avrei paura. Oggidì per ritorsione sono capaci di accusarti di pedofilia.
«In effetti occorre prudenza. Io mi premuro che in casa siano sempre presenti i genitori o il personale di servizio».
Ma come fa a mettere in riga adolescenti ubriachi di computer, cellulare, playstation e ipod che si esprimono come i camalli?
«Il precettore può scegliere d’essere autoritario oppure autorevole. Nel primo caso basta sbraitare. Nel secondo bisogna istituire un rapporto basato sulla fiducia. Il che non significa rispondere alle richieste di contatti che arrivano attraverso Facebook. Io non le sottoscrivo mai, a differenza di molti miei colleghi che s’intrattengono con i loro studenti in Rete».
Di chi è la colpa del disastro pedagogico?
«Del livellamento scolastico rispetto all’educazione gentiliana. Più che al sapere gli insegnanti badano alle competenze tecnologiche. Vent’anni fa sarebbe stato impensabile che in classe si leggesse un articolo di giornale».
Parliamo di premi e castighi.
«Quintiliano nell’Institutio Oratoria scrive che “quanto più di frequente il precettore ammonirà, tanto più di rado dovrà ricorrere a punizioni”. A me non capita mai di darne».
La sberla è ammessa sì o no?
«Ho avuto un’educazione severa e non sono mai stato schiaffeggiato. Non mi piacerebbe passare per il maestro Orbilio, definito plagosus, che procura piaghe, dal suo allievo Orazio per la frequenza con cui usava la ferula».
Che differenza c’è fra bon ton e savoir vivre?
«Il bon ton è la teoria. Il savoir vivre è la pratica. Sapere in ogni occasione che cosa fare o non fare rafforza il nostro senso di sicurezza. Non pare, ma ci viene offerta un’unica possibilità per dare un’impressione positiva. Sempre».
Esemplifichi.
«La stretta di mano: franca e virile, non floscia. Il baciamano: mai in luogo aperto, mai su mani guantate, mai toccando le dita con le labbra. Le presentazioni: solo nome e cognome, evitare di dire “piacere”. La postura da seduti: ortogonale rispetto alla sedia, leggermente protesi verso l’interlocutore. A tavola: per nessun motivo il pesce col coltello».
L’ultima non l’ho mai capita. Fu stabilita al Congresso di Vienna?
«Quasi. Il coltello è un’arma, quindi bisognava allontanare dalle mense tutto ciò che richiamava la violenza. Per di più si doveva evitare il più possibile che sulla posateria restasse un olezzo sgradevole, quello che i veneti chiamano freschìn, vocabolo intraducibile che una volta ho sentito definire come odore di marina».
Nient’altro?
«Quando si parla in pubblico, mai rivolgersi a qualcuno in platea. Ed evitare l’ingestione di latte o di cioccolato due ore prima del discorso. Stendono una patina sull’organo fonatorio, esponendo a bruschi cali di voce. Infatti i cantanti prima dei concerti mangiano alici per sgrassare le corde vocali».
Qual è l’istituzione più seria che ci è rimasta?
«L’Arma dei carabinieri».
Da dove bisogna ripartire per rifare l’Italia?
«Rispondo con Cavour: dagli italiani».
Il citato Quintiliano diceva: «Il precettore non abbia difetti, né li tolleri».
«Come precettore non dovrei averne».
Però...
«Direi la tendenza a prendermi troppo sul serio. Non ne vale la pena».
(463. Continua)
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