Cultura e Spettacoli

Premio Viareggio, l’antifascismo dei libri brutti

«Andai, dentro la notte illuminata» racconta un reality show dove gli sconfitti si uccidono e Saddam balla con Céline Dion

Senza troppo entusiasmo, ricevo e inizio a leggere il romanzo di Giancarlo Liviano, Andai, dentro la notte illuminata (Pequod, pagg. 220, euro 15). Il mio scetticismo deriva dalla statistica. Dei tanti romanzi di scrittori italiani under 30 che negli ultimi anni m’è toccato sciropparmi, solo il 10 per cento ha superato la soglia della leggibilità. E per sperare in qualcosa di più della sufficienza, più che la statistica serve la fortuna.
Leggo le prime tre pagine, vengo sommerso da un diluvio di aggettivi e mi prende una strana allegria. Ecco uno che finalmente rende giustizia a questa categoria così bistrattata, la categoria degli aggettivi, e li usa molto, e molto bene. Prima ancora di rendermi conto di quale storia Liviano mi voglia raccontare, ciò che mi colpisce è il tono della sua voce: una prosa sovreccitata, come un assolo di Charlie Parker. La sovreccitazione è una forma di epica.
Appena riesco a sistemarmi comodamente dentro il libro per godermi lo spettacolo, mi accorgo di trovarmi in un luogo inaudito. Abituato ai soliti cliché della narrativa italiana, mi aspettavo la borgata di una nostra metropoli o uno di quei tinelli in cui due delle 100mila varianti letterarie di Kim Rossi Stuart e Giovanna Mezzogiorno vedono sgretolarsi il loro rapporto a colpi di incomunicabilità post-antonioniana. E invece eccomi qui, a San Francisco, mentre mi sporgo nel vuoto dal Golden Gate. La trama è piuttosto semplice e sommamente improbabile: sei persone hanno firmato un contratto con un network televisivo americano per un reality show durante il quale il pubblico voterà chi salvare e chi condannare alla più definitiva delle eliminazioni; gli sconfitti, infatti, dovranno buttarsi in mare dal ponte e in mondovisione si potrà assistere alla loro morte.
I concorrenti sono un condannato a morte, un porno-attore, una coppia di idioti in cerca di celebrità, un malato terminale di Aids e un ragazzo pugliese, Alex, le cui motivazioni suicide sono incomprensibili. È lui a raccontarci tutta la storia. Una storia che ha trascinato la mia curiosità dall’inizio alla fine, solo per sapere chi dei concorrenti si sarebbe salvato. Ma il plot è l’ultimo dei godimenti di questo libro. Il vero godimento è l’arsenale di fuochi d’artificio che Liviano fa esplodere a ogni pagina. Una delle protagoniste del romanzo è Paris Hilton. Nessuna donna, nei secoli dei secoli, ha incarnato meglio di Paris «lo spirito dei suoi tempi». La sua icona - fragilissima - è più potente di quella di Mata Hari, della Garbo, di Marilyn e di Brigitte Bardot. Tutti i maschi del pianeta sbavano per lei più o meno segretamente e più o meno pubblicamente fingono di detestarla. Il motivo è che Paris Hilton fa paura. Fa paura la sua bellezza in bilico tra una bruttezza ripugnante e uno sconvolgente erotismo. E fa paura soprattutto il sospetto che Paris abbia ragione. Il moralismo stomachevole di certi articolisti di fronte allo spettacolo di Paris che entra in galera, nasconde il terrore di ammettere a se stessi che Paris stia vivendo al meglio la propria vita. Mi domando e vi domando: cosa dovrebbe fare la fighissima rampolla ventenne di una delle famiglie più ricche del pianeta, se non divertirsi sfrenatamente accettando con filosofia la propria sfolgorante inutilità? Paris non va in Darfur a farsi fotografare con un bimbo denutrito; non gira un film indipendente in cui si fa imbruttire da tre ore di trucco per farsi dare una pacca sulle spalle dai radicals dell’Academy; non scrive canzoni sulla condizione della donna nel XXI secolo; non fa nessuna di tutte quelle cose che potrebbero farcela amare con più tranquillità. Esce dai taxi senza mutandine, si dilunga in effusioni finto lesbiche con Britney Spears in favore di telecamera, gira clip musicali addirittura più volgari dell’immortale video amatoriale di una sua notte di sesso.
Liviano, tutto questo lo sa, e ci regala un ritratto indimenticabile di Paris: «È così magra e lunga - scrive - che sembra un chiodo da bara, e la sua silhouette è un parossismo d’armonia. Nel tempo libero corre in veloci auto sportive. Ha causato incidenti in stato di ubriachezza e se l’è cavata dispensando bacini volatili ai poliziotti».
Nonostante i pubblici atti di modestia e le pretese di normalità, lo scrittore - se è tale - la normalità la odia e pecca costantemente di superbia. Il suo compito è di provare ad essere eccezionale. Ionesco osservava che la caratteristica della biografia degli uomini famosi è che hanno voluto essere famosi. Per gli scrittori c’è un surplus di ambizione: non cercano la fama ma la gloria. Ogni romanzo creato con vera passione aspira in maniera del tutto naturale al valore estetico duraturo. Scrivere senza tale ambizione è puro cinismo.
Ora, uno scrittore che fa ballare nel suo libro Céline Dion - e cioè la più melensa cantante dai tempi di Judy Garland - con Saddam Hussein - e cioè il più peloso dittatore sanguinario dai tempi di Castro - e tutto questo in diretta televisiva durante un reality show, è sicuramente un pazzo, se non è un bravo scrittore; ma se invece è bravo, denota soltanto la sua megalomania che, come ho detto, è una forma di onestà intellettuale per ogni artista che si rispetti.
Liviano è megalomane e perciò onesto. Con questo suo Andai, dentro la notte illuminata ha preteso di contravvenire ad una delle regole imposte dall’editoria e dalla critica più ammuffite, e cioè che non bisogna mai ambientare una storia in un Paese straniero, e men che mai in America, perché all’America ci pensano già gli americani. Se posso fare un complimento a Liviano, è questo: il suo libro sull’America sembra scritto da un americano.

Liviano scriverà altri libri, e alcuni saranno più belli di questo; se la contingenza e la sorte lo aiuteranno, forse sarà in grado di scrivere un capolavoro.

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