È una strage silenziosa che si consuma giorno per giorno nelle aule dei tribunali. I procedimenti muoiono prima di arrivare alla sentenza e i giudici si trasformano in medici che ne certificano la morte. Uno spettacolo avvilente che colpisce migliaia di notizie di reato. Il ministro Angelino Alfano dà due numeri che rendono l’idea di quel che avviene: ogni 24 ore vengono cancellati in Italia 466 procedimenti, circa 170mila ogni anno. Centosettantamila su 3 milioni e 300mila fascicoli pendenti. Più del 5 per cento del totale. Dati impressionanti che diventano ancora più clamorosi se li si considera in fila: nell’arco di dieci anni sono spariti circa 2 milioni di processi.
Una situazione che è figlia di un sistema che persegue troppi reati. E non funziona bene. Risultato: molti fascicoli vengono aperti dal gip, ancora in sede di udienza preliminare, quando è troppo tardi. Gli uffici dei gip archiviano, perché il tempo è scaduto, ben 117.463 procedimenti ogni 12 mesi. In pratica è nella stanza del gip il grande imbuto che porta via molte notizie di reato. Il 71,6 per cento del totale, secondo i dati aggiornati al settembre 2010.
Le cifre, si sa, sono noiose, ma i magistrati non riescono a tenere il passo e sono costretti a selezionare: l’obbligatorietà dell’azione penale viene formalmente rispettata, ma di fatto si fanno delle scelte. Scelte che l’allora procuratore di Torino Marcello Maddalena aveva messo nero su bianco indicando in una famosa circolare del 10 gennaio 2007 le priorità. E di fatto condannando a morte i fascicoli più vecchi. «Ho preso atto dell’impossibilità di celebrare tutti i processi - aveva spiegato Maddalena in un’intervista al Giornale - è come con le tasse. Si devono pagare. Ma se uno non ha i soldi non le paga. Non c’è niente da fare».
Appunto. Cadono in prescrizione molti illeciti commessi dai colletti bianchi, cadono in prescrizione molti reati colposi. Quelli di cui non parla nessuno ma che non sono meno devastanti, anzi umilianti, per chi li vive. Per esempio, le morti sul lavoro: per tanti incidenti non paga nessuno. Ci sono casi dolorosi come spilli che scompaiono dalle pagine di cronaca con due righe. Come, per citarne uno, il dramma di Niccolò Galli, giovane e promettente calciatore del Bologna, il figlio di Giovanni, per molti anni portiere del Milan. Niccolò muore il 9 febbraio 2001 a 17 anni andando a sbattere con il ciclomotore contro un pezzo del guard-rail rovinato. Anzi, rotto, con uno spuntone che esce pericolosamente e si conficca nella pancia dello sfortunatissimo giovane. In primo grado, nel 2007, tre tecnici del Comune di Bologna e delle coop, che avevano partecipato ai lavori di manutenzione, vengono condannati per omicidio colposo. Pochi giorni fa, in appello, l’inevitabile prescrizione. La storia finisce in niente. La macchina giudiziaria ha girato a vuoto, ma quel che lascia sgomenti è l’atteggiamento che la giustizia ha tenuto nei confronti di una famiglia già provata dalla terribile tragedia: nessun rispetto per il dolore. La sofferenza entra nel circuito della burocrazia e non conta più nulla.
Dieci anni non sono stati sufficienti. Del resto, il nostro Paese deve fare i conti con una disciplina particolare: l’archeologia giudiziaria. Si celebrano processi per reati gravissimi avvenuti venti, venticinque, trent’anni prima. Reati che non sono prescritti ma appaiono lontanissimi. Pensiamo alla strage di Piazza della Loggia a Brescia avvenuta il 28 maggio 1974: il dibattimento di primo grado si è chiuso pochi mesi fa, il 16 novembre 2010, con una raffica di assoluzioni.
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