Promesse pericolose

Promesse pericolose

Il Mezzogiorno di Fuoco di Romano Prodi è arrivato con qualche minuto e diversi mesi di anticipo. Con una telefonata di congratulazioni che può essere stata gradita (e di cui comunque si è dovuto ringraziare) dal numero più scomodo che in questo momento si potesse immaginare: prefisso internazionale Palestina, prefisso locale Gaza, all’apparecchio Ismail Haniyeh. Testo: cordiali felicitazioni (evidentemente conseguenti alla decisione della corte di Cassazione) a nome dell’Anp e di Hamas. Il quasi premier deve aver sobbalzato un pochino sulla seggiola (non è ancora insediato in una vera e propria poltrona), ma non ha potuto che ricambiare i complimenti, con cordialità com’è suo costume e come gli ha suggerito, forse, la felice euforia del momento. Ma poi ci ha ripensato, o è stato indotto a ripensarci, e ha fatto precisare che quel colloquio telefonico non è stato poi così «confidenziale» come può apparire dal testo rilasciato da Hamas. Il probabile futuro presidente del Consiglio ci tiene a far sapere di non essersi dimenticato, nello scambio di lieti convenevoli, di ricordare all’interlocutore che, anche con il centrosinistra in Italia, rimangono le «inderogabili necessità» da parte del nuovo «governo» palestinese: il riconoscimento d’Israele, la rinuncia al terrorismo, l’impegno a rispettare gli accordi presi dai predecessori.
E ci mancherebbe che non gliel’avesse detto, che il successore di Berlusconi avesse debuttato ripudiando i nostri, di impegni, che non sono stati presi da Berlusconi o da Fini, ma si ricollegano sia alla posizione comune dei Paesi europei, sia alla tradizionale linea dell’Italia in più di mezzo secolo, da quando cioè esistono lo Stato ebraico e, di conseguenza, il problema palestinese. Ma ciò che si dice non è tutto. Conta anche il come lo si dice e come, in certi casi soprattutto, le parole di uno vengono intese dall’interlocutore. In questo caso la nota di Hamas, nei suoi virgolettati e fuori, esprime, forse con qualche appesantimento lessicale più che comprensibile, data la situazione disperata di chi l’ha stilata, una sensazione diffusa nel Medio Oriente: che il cambio di governo a Roma si possa tradurre in un mutamento sostanziale, o sostanzioso, dell’atteggiamento psicologico dell’Italia nella crisi prodotta dall’assunzione del potere da parte di un «partito» come Hamas che tuttora figura nell’elenco delle organizzazioni terroristiche. E in assenza di comunicazioni in proposito del governo che Romano Prodi tenterà di formare, si appoggia alle ultime dichiarazioni pre-elettorali del leader dell’Unione, in particolare all’intervista con Al Jazeera in cui egli avrebbe, almeno nel testo arabo, auspicato «aperture» europee ad Hamas. La nota è in proposito dettagliata. Nel corso del colloquio telefonico il neo premier Haniyeh ha chiesto al futuro premier Prodi di mantenere in sostanza fede alle sue promesse, di confermare con i fatti la sua «posizione dichiarata circa la causa palestinese e il governo palestinese eletto» e di far svolgere al governo italiano il ruolo che i palestinesi, e in particolare Hamas, credono sia stato promesso.
E il punto è questo: non il resto del messaggio, che è prevedibile, dall’auspicio «che i Paesi europei rispettino la scelta democratica dei palestinesi» alla convinzione che la sola pace possibile sia «quella che pone fine all’occupazione». Niente di nuovo in bocca a un esponente di Hamas, neppure l’accenno all’«assedio» in corso contro il popolo palestinese anche attraverso la «crisi finanziaria». E questa è la domanda: che cosa Prodi, e gli altri esponenti del centrosinistra hanno promesso a Hamas, in termini concreti e anche con generiche espressioni di incoraggiamento. Perché in un punto del globo esplosivo come quello è bene per tutti e sempre andarci piano con le parole, che in bocca a un politico possono essere ambigue e scontate, ma che nel Medio Oriente si traducono spesso in bombe. Che l’Italia debba avere un ruolo nei tentativi futuri di avviare a soluzione un problema che si aggrava da mezzo secolo abbondante è ovvio. Ne abbiamo il dovere e dunque anche il diritto. Nella tradizione politica di Roma non c’è mai stato alcun preconcetto ostile ai palestinesi, espresso anche concretamente con la partecipazione al finanziamento dell’Anp, prevalentemente ma non solo a scopi direttamente umanitari. Quello che l’ultimo governo (quello tuttora in carica) ha fatto è stato semmai un’opera di riequilibrio, una serie di chiarimenti con Israele al fine di restituire alle iniziative nostre e del resto d’Europa una credibilità e dunque un peso che rischiano di venir meno quando una delle due parti percepisce un asse preferenziale con la controparte. Proprio chi ama mediare sa che in questo modo l’opera di un mediatore diventa improba, se non inutile. Lo sa l’America, che ha a tratti perduto ascolto nel mondo arabo quando è stata percepita come eccessivamente filo-israeliana, lo sa l’Europa che ha dato più volte adito alla convinzione contraria, di essere cioè troppo schierata con gli arabi. I problemi antichi di quella terra sono tanti e la presenza di Hamas al governo ne aggiunge e aggrava i precedenti. Da parte di tutti è necessaria accortezza unita a chiarezza di principi.

Ma occorre anche, anzi prima di tutto, prudenza nel fare o lasciare intendere promesse che possono portare sia all’irrigidimento di un interlocutore, sia ad esagerate attese da parte dell’altro. Con le conseguenze, poi, che la delusione può prendere.

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