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Il protagonista di “Amarcord”: «Questa baita è la mia prigione»

Nel marasma immoto della baita, all’improvviso qualcosa si muove, laggiù in fondo, sotto il fornello sovrastato dal ritratto di Santa Teresa di Lisieux. È un puntolino che compare, scompare e subito ricompare alle spalle di Bruno Zanin. Il Titta Biondi di Amarcord nota la mia distrazione. Si volta a guardare. Poi torna a fissarmi: «Ha visto un condannato a morte». Il topo rosicchia le esche avvelenate. «Sono obbligato a farlo. I ratti combinano disastri, mi bucano le coperte». Si gira di nuovo. «Però adesso mi dispiace, poverino. Non dovevo mettere il topicida».
A 56 anni il biondino che diede corpo sullo schermo alle fantasie oniriche di Federico Fellini è schiacciato dai sensi di colpa. Per la violenza sessuale che subì in seminario a opera di un sacerdote. Per l’omosessualità borderline che ne derivò. Per i tre cicli di psicoanalisi junghiana affrontati nella speranza di uscirne. Per aver tentato il suicidio quando scoprì che la ragazza di cui s’era invaghito lo dileggiava offrendo in pasto agli amici le poesie d’amore scritte per lei. Per il ricovero in manicomio che ne seguì. Per Monique, la moglie da cui s’è separato «mai e sempre», una fotografa conosciuta al Théâtre de la Ville di Parigi dove lui recitava Ionesco, sposata nel ’78 spinto dal bisogno di dimostrare a se stesso che sapeva fare il suo dovere di uomo. Per i due figli di 28 e 23 anni, uno insegnante in Lussemburgo, l’altro operaio in Normandia, messi al mondo al solo scopo d’inondarli dell’affetto e della tenerezza che non ha avuto da bambino.
Ora Zanin è tormentato anche dal rimorso per aver svelato tutto questo nel romanzo autobiografico Nessuno dovrà saperlo (Tullio Pironti editore), «un libro di espiazione e di redenzione, il libro di un’anima ferita e di una coscienza incapace di perdonarsi», come ha scritto Raffaele La Capria, soprattutto per aver dedicato questo volume alla memoria della madre Adele, del padre Anselmo e di Edward Melcarth, riservando però la riprovazione al sangue del suo sangue e il rimpianto all’artista che considera il suo vero genitore, «morto povero in un ospedale pubblico di Venezia, il primo adulto che mi ha rispettato, che non mi ha mai messo le mani addosso, che mi ha presentato alla sua amica Peggy Guggenheim, sfamato, consigliato, portato in giro per l’Italia senza pretendere nulla in cambio».
Ero salito fino a Vanzone, alle pendici del monte Rosa, per un amarcord e invece mi tocca raccogliere una confessione. «Questa baita è la mia prigione. Mi ci sono recluso da solo. Dieci anni fa ho venduto anche l’auto, così non posso più scendere a valle. Altrimenti, appena calano le tenebre, il demone che ho dentro mi porterebbe a cercare emozioni proibite giù in città». Per scappare da se stesso ha abbandonato il cinema (dopo Amarcord aveva girato Il buon soldato, Il caso Moro, L’Agnese va a morire, una dozzina di film, «ma non mi chieda qual è stato l’ultimo, non me lo ricordo», rovista nel baule alla ricerca di una foto con Fellini, «per me è come scavare in una tomba»), ha abbandonato la televisione (Marco Polo, Il Mercante di Venezia), ha abbandonato il palcoscenico («quando Giorgio Strehler mi prese al Piccolo di Milano, nel ’75, non avevo mai messo piede in un teatro in vita mia, neanche come spettatore») ed è andato per conto dell’Abbé Pierre a portare aiuti umanitari durante la guerra in Bosnia, da dove mandava corrispondenze alla Radio Vaticana.
Zanin dimostra ancora la prestanza fisica che in Amarcord gli consentiva di caricarsi sulle spalle Antonietta Belluzzi, la tabaccaia di Amarcord con due aerostati al posto delle tette. Ma non potrebbe più infilare le mani sotto la gonna bianca di Magali Noël, la Gradisca, nemmeno nel buio di un cinematografo, tanto sono oggi irruvidite e scorticate («faccio il muratore e il manovale, taglio la legna dei boschi, le bollette a volte vanno in mora, ma chissenefrega»). Del Titta Biondi che fu gli sono rimasti solo gli occhi, di un azzurro polinesiano, e il sorriso malandrino.
Sarà pur vero che diversi si nasce, ma Zanin ha provato nelle proprie carni che lo si può anche diventare per quello che lui chiama, rifacendosi a Konrad Lorenz, «l’imprinting». Le oche selvatiche, private della madre in tenera età, scambiavano l’etologo austriaco per il loro genitore e, una volta adulte, per il loro partner. Il piccolo Bruno, un selvàdego cresciuto libero a Vigonovo nell’entroterra veneziano, confinato dai genitori a 400 chilometri da casa ha finito per scambiare per amore le attenzioni di un pedofilo e, passati più di 40 anni, è ancora qui a farci i conti tutti i giorni.
Mi parli della sua infanzia.
«Splendida e solitaria. Il paradiso in terra. Un bambino all’inizio vive lo stato edenico primordiale, crede a ciò che gli raccontano i genitori, gli insegnanti, i preti. Nei campi mi sentivo re, mago, parón de tuto. Ero molto pio, pregavo, portavo i fiori davanti ai capitelli della Madonna. Mi accadevano fenomeni paranormali».
Per esempio?
«Ripetevo fino all’estenuazione “Gesù e Maria ve vogio tanto ben”, una giaculatoria che mi aveva insegnato mia nonna Teresina, e mi assentavo. Dopo una di queste estasi, dissi ai miei: g’ho visto ’na femena in canale co’ do putele. Il giorno dopo fu trovata nella roggia una mamma morta suicida: s’era annegata con le due figliolette».
Terribile.
«In terza elementare arrivò a casa nostra il sergente reclutatore. Aveva la talare e una giardinetta grigia targata Treviso. Estrasse da una borsa nera un tema che avevo scritto in classe per un concorso missionario. “Dimmi la verità: è tutta farina del tuo sacco o ti ha aiutato il parroco?”, m’interrogò. Credette alla mia sincerità e mi consegnò in premio un mappamondo luminoso. Prima di sera l’avevo già rotto. Mentre mi mettevano a letto mezzo addormentato, sentivo i miei che confabulavano di un collegio gratuito in Piemonte, dalle parti di Alessandria. Ero il penultimo di sette figli, nessuno dei quali aveva studiato. “Ma non si può mandarlo più vicino, a Padova o a Vicenza?”, resisteva mia madre. “Il prete mi ha detto che solo là hanno i benefattori che li aiutano”, tagliò corto mio padre».
Ci finì.
«Aspirantato per il seminario, lo chiamavano. “Un posto bellissimo, con campi di calcio, alberi, cinema, teatro e biliardini”, me lo aveva descritto papà. La prima cosa che notai di quel casermone è che non aveva i comignoli. Fu un trauma. Una casa senza camino? Non capivo: è il focolare la casa. I cessi stavano all’estremità di un loggiato. Sulla porta un cartello liso: “L’occhio di Dio ti vede anche in fondo ai portici”. Nella camerata rischiarata dalla luce azzurrognola passavo notti intere a rimuginare con gli occhi sbarrati: ma perché mi hanno messo in questo posto così lontano? voglio la mamma, voglio tornare a casa, che cosa ho fatto di male per finire qui? Domande senza risposta, come le lettere che mandavo ai miei. L’unica missiva me la spedirono per informarmi, a funerali avvenuti, che un mio fratello era morto. Avevo un unico amico venuto dal mio stesso paese, in quel collegio. Morì annegato nel tentativo di salvare un cane».
Fu il direttore ad abusare di lei?
«No, un missionario tornato dal Brasile per curarsi da una malattia tropicale. Io stavo lì già da cinque anni. Terza media, pieno sviluppo, i pantaloni sempre più stretti, scoppiavo fuori da ogni parte. Per tutti ero sempre stato Zanin. Lui fu l’unico a chiamarmi per nome, Bruno. Mi fece sentire importante. Un giorno portò tutta la classe in escursione sull’Argentera. A 2.700 metri ci sorprese una tormenta di neve. Fummo costretti a passare la notte in un pagliaio. Il prete ci diede da bere un goccio di grappa portata nella malga dai montanari. Mentre tutti dormivano, sentii il suo fiato vicino alla mia bocca. Poi un bacio caldo. Forse era ubriaco. Fece tutto lui, con l’attenzione di un adulto pratico. Io subii passivo come un cadavere».
Non poteva ribellarsi?
«Io non avevo esperienze, non sapevo nulla di donne. Era la prima volta che mi accadeva. È difficile da spiegare. C’era la violenza ma anche la scoperta del piacere: è questo l’imprinting che ti marchia per tutta la vita. Lo spiega bene San Paolo: io sono di carne, venduto come schiavo del peccato, io non riesco a capire neppure ciò che faccio; infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. La lotta per sentirsi puliti cede a una sessualità assurda, sporca, deviata. A 7 anni la stessa esperienza era capitata in collegio anche al mio violentatore. È una catena».
E l’indomani?
«Dolore, vomito, vertigini, febbre. Alla sera il missionario, tutto sudato, pretese di confessarmi. Mi spiegò che il diavolo, invidioso della nostra vocazione, ci aveva fatti cadere in un maleficio. Piangeva: “Scusami, Bruno, non puoi capire quanto Satana sia potente nel tentare noi preti che abbiamo in affidamento anime cristalline come la tua”. Poi il tono di voce si fece impersonale: “Non ripensare mai più a questo episodio, quel che è successo è successo. Nessuno dovrà saperlo”. Mi diede l’assoluzione per un peccato commesso da lui».
Lei non chiese aiuto ai suoi?
«Tornato a casa per l’estate, riferii l’accaduto a mio padre. La prese come una scusa per non tornare in collegio e mi mandò, Dio solo sa perché, a bottega da un barbiere che era notoriamente gay. Non glielo perdono neanche oggi che è morto, a papà».
Altre violenze.
«Mi confidai col parroco in confessione. “Va in cartoleria, compra un foglio protocollo e mettimi per iscritto ciò che mi hai raccontato”, mi ordinò. L’indomani il parrucchiere era in galera e io sulla bocca di tutti. Scappai di casa. Lavoravo in circhi e luna park, fra sradicati come me. C’intendevamo senza parlare. Fino a quando i carabinieri non mi acciuffavano. L’ultima volta mio padre disse ai militari: “Basta, tegnìvelo!”. Fui rinchiuso prima alle Zattere a Venezia e poi a Udine. In riformatorio tiri fuori tutto ciò che in seminario viene represso. È una casa di corruzione, non di correzione».
E all’uscita dal riformatorio?
«Dormivo per strada col mio cane Whisky. Fui raccattato in una calle veneziana da Melcarth. Posai per lui come modello. Era l’artista prediletto del miliardario Forbes, aveva affrescato la Rotunda dell’hotel Pierre di New York e disegnato i celebri occhiali surrealisti di Peggy Guggenheim. Mi portava a colazione da lei. Ogni tanto si mettevano a parlare fra loro in yiddish. L’anziana collezionista faceva rimanere Whisky sull’uscio perché aveva paura che attaccasse le pulci ai suoi cagnolini».
Come fu scritturato da Fellini?
«Per caso. Mi ospitava a Roma una madre di quattro figli. Uno di loro, Pino, che poi sarebbe andato a morire come fotografo in Pakistan, faceva la comparsa nei western. Lo accompagnai a Cinecittà. Vidi tanti ragazzi in fila per le selezioni di Amarcord e m’intruppai. A un certo punto Fellini urlò ai suoi assistenti: “Cazzo, ma siete proprio delle grandi patacche, voi della produzione, ciechi del tutto! Non vedete che è uno come quello lì vicino al termosifone che ci serve? Su, portatelo qui!”. Ero io. Mi fece biondo e dopo una settimana cominciò le riprese. Federico e Cristo sono quelli che mi hanno cambiato e complicato di più la vita».
Curiosa gerarchia.
«Be’, ma fu Fellini a stravolgermela, a mettermi in mano un milione di lire a settimana. Era il ’73. Oggi sarebbero quasi 7.000 euro. E che sono soldi guadagnati, quelli? Li spendevo prima d’averli. Ero sempre indebitato. Federico è stato troppo buono con me. Era un eterno adolescente. Con la scusa di mostrarmi come andava girata la scena, infilava la sua testa una, due, tre volte fra le tettone della tabaccaia, che in realtà era una camiciaia di Bologna che lo adorava, povera Antonietta, è morta dieci anni fa cadendo da un balcone. A me lasciava il compito di sollevarla fino a 40 volte, un quintale abbondante, alla fine mi ci voleva una bottiglia di Vov per riprendermi».
E dunque?
«È che l’attore non ha il senso né della realtà né di niente. Il bel mondo ti corteggia. La gente ti vuole ospite a tavola e anche a letto. Ti sbronzi, tiri cocaina. Io sono nato contadino. Dovevo sentirmi sempre un impostore per fare quel mestiere. Ho chiuso. Oggi sono attratto dal cinema quanto dalla salma di una prostituta strangolata e lasciata nuda ai bordi della tangenziale. È tutto lontano, dentro una nuvola. È come se avessi vissuto un sogno».
Di che campa?
«Non chiedere mai a un artista di che campa. Scrivo, ma non mi sento scrittore. Scrivo quando sto male. Siccome non so parlare, metto sulla carta quello che la voce non riesce a esprimere. Poi rileggo e mi domando: ma l’ho scritto io? Ho fatto il Cammino di Santiago de Compostela, 40 giorni a piedi con mio figlio, per scacciare la bestiaccia, la depressione che viene a visitarmi e mi spegne la luce, mi toglie la voglia di vivere, mi lascia nel mondo senza farmici stare».
Della Chiesa che cosa pensa?
«Non ce l’ho con i preti. Gli rimprovero solo d’essere diventati impiegati, con i loro orari e i loro stipendi. Non si vede neanche il riverbero di Cristo nel clero. Andai a trovare per anni fratel Carlo Carretto nel suo eremo di Spello, dove s’era ritirato al ritorno dal Sahara. “Bruno, devi avere misericordia”, mi esortava. Ma Cristo si prese come apostoli dodici uomini adulti, alcuni anche sposati, non dei bambini. Non ne ho conosciuto uno, di coloro che hanno patito ciò che ho patito io, che sia diventato normale: sono finiti tutti o pervertiti, o eroinomani, o suicidi. È una malattia da cui esci solo con la lobotomia. Ho passato i miei giorni a chiedermi se dovevo attaccarmi una macina di mulino al collo o se c’era una clemenza, un’attenuante, una possibile Corte d’appello che m’avrebbe reso giustizia per la storpiatura ricevuta».
Ora ha ritrovato un suo equilibrio?
«L’equilibrio si ritrova dopo morti».
Stefano Lorenzetto
(368. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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