Cultura e Spettacoli

Qualcuno volò sul nido degli umani

In esclusiva per «il Giornale» una storia horror dello scrittore statunitense. Creature mostruose si aggirano sui tetti. Da dove provengono? E, soprattutto, quando se ne andranno?

Quella sera iniziarono presto. Susan e io restammo ad ascoltare il rumore prodotto dalle loro zampe che si trascinavano sui tetti e le imposte, il suono sprezzante dei loro richiami, il frullio occasionale delle ali. Date le loro dimensioni, le ali non servivano a granché. Al massimo servivano a frenare una eventuale caduta.
Susan si alzò in piedi, si avvicinò alla finestra per dare un’occhiatina, tra le aste dell’imposta, al tetto dei dirimpettai. Cocci di bottiglie fusi nel catrame, un pezzo di quello che doveva essere stato un tostapane con tanto di cavo di alimentazione che gli spuntava dietro a mo’ di coda, qualche busta e sacchetto di plastica per la spazzatura. Lassù ce n’era uno morto, riverso sulla schiena. No, non era morto, stava morendo. Mentre ero in osservazione, contrasse le zampe. Gli altri se lo stavano mangiando.
«Sono davvero belli, sai. A modo loro».
Mi strinsi nelle spalle. Susan vede cose che nessun altro di noi vede o, quanto meno, le vede in un modo diverso dal nostro. È proprio questo a renderla ciò che è. Sulla parete opposta alla finestra c’è il suo ultimo dipinto. Colpito dalla luce del mattino, metà al sole e metà in penombra, una specie di alveare che assomiglia (sempre che possa assomigliare a qualcosa di vagamente familiare) a un insediamento rupestre di indiani anasazi. Sopra l’alveare ce n’è uno appeso a mezz’aria. «Ovviamente, non possono volare in quel modo», disse Susan, non appena lo vidi.
Dopo tutti questi anni, non può essere restato granché da mangiare per loro. E invece noi sopravviviamo grazie alla generosità dei nostri antenati: lattine di Spam, piselli, spaghetti Campbell, zuppa di pomodoro, Pepsi, carne marinata con patate, asparagi, sardine, carne in scatola, fagioli verdi.
Si girò nuovamente dalla mia parte. Doveva esserci la luna piena. La luce le frustò delicatamente i seni. I seni morbidi. Anzi, no. Piccoli e duri, direi. Rinsecchiti, snervati, come il resto del nostro mondo. Ma pur sempre appetibili. Ogni notte si ferma alla finestra per ore, prima di venire a letto. Ecco un’altra cosa a cui cerco di non pensare. Il significato di tutto questo. Com’è tutto diverso. Com’è tutto cambiato.
Susan impiegò poco ad addormentarsi. Accesi la radio, feci avanti e indietro con il sintonizzatore finché non trovai qualcosa. Chi poteva saperlo? Restava ancora qualche rara stazione, che trasmetteva quando poteva. Certe notti persino il rumore di fondo era un conforto.
Buon giorno a tutti. È buio qui, si sa, però di certo da qualche parte è mattina. State ascoltando la Voce della Gente su Radio Libera, 102 punto 4. Avete appena sentito Shen O-Wah leggere un passo del suo nuovo libro.
Mio Dio, pensai, c’è ancora qualcuno che pubblica libri. Il sonno di Susan si fece lieve. Si girò e mi si fece più vicina e disse, grosso modo, Mmgh. Ero sul fianco destro. Il suo braccio si posò sul mio petto, restando sospeso nel vuoto. Lo presi e lo avvicinai a me. E così fummo una cosa sola.
Ci è appena pervenuto il rapporto dei nostri osservatori. Nella parte sudoccidentale della città - la nostra parte - si registrano pesanti attività, dal lungofiume fino alla vecchia circonvallazione. È quella la zona calda, attualmente. Restate sintonizzati per eventuali aggiornamenti. Saremo con voi per tutta la notte. Dopo tutto, chi ce la può fare a dormire?
Susan, per esempio. Era come se avesse un interruttore nella testa. Lo premeva e gli ingranaggi si staccavano, rallentava il ritmo e si fermava del tutto. Per contrasto, a me sembrava di non riuscire mai a dormire e passavo la notte con la mente assediata dal ronzio di frammenti di canzoni e pensavo, senza peraltro mai trarne vantaggio. In realtà, però, dormivo, di sonno doveva trattarsi, perché, di quando in quando, mi svegliavo con brandelli di sogni che si libravano, sospesi a mezz’aria per un istante o due, quasi tangibili prima di svanire e sparire del tutto.
Molti di noi della radio hanno ascoltato Ornette Coleman nelle ultime settimane. Eccovi uno dei brani con cui Coleman e il suo gruppo si sono imposti all’attenzione del pubblico. A noi il suono di questo brano ricorda il mondo in cui viviamo.
Aveva proprio ragione. La stessa cosa valeva per La Valse di Ravel. La differenza stava nel fatto che all’inizio di La Valse avevamo i piedi ancorati a una base salda, eravamo testimoni di un universo che si dipanava, si sbrogliava nel caos. Con Coleman, il caos era preesistente, ci attendeva come un paio di ciabatte e una vestaglia, un comodo paio di jeans.
Udii un frullio d’ali e, qualche istante dopo, il tonfo di uno di loro che andava a sbattere contro la parte esterna delle imposte. Gli speroni da quindici centimetri sfregati contro il legno, un rumore come quello di una spazzola metallica mentre cercava un appiglio alla cieca.
Mi accorsi che Susan era sveglia.
«Ti ricordi quando pensavamo che prima o poi se ne sarebbero andati? Che ci saremmo svegliati un bel giorno e che avremmo scoperto che erano spariti, spariti con la stessa fulmineità con cui si erano presentati?».
Mi ricordavo. Siamo una specie molto speranzosa. E le cose ci sono andate bene per un sacco di tempo. Più a lungo di quanto fosse lecito aspettarsi.
Perdonateci l’interruzione del brano. Ornette vi prende e vi tiene in scacco, vero? Ma abbiamo appena ricevuto un aggiornamento della situazione. I nostri osservatori ci informano che, a quanto pare, l’attività si sta spostando decisamente a nordest. Il motivo non lo sappiamo. Ma non è una novità che non lo si sappia, giusto?
Susan si alzò e si avvicinò alla finestra. Appoggiò la mano contro il vetro, proprio dove si era posata una di quelle zampe. Finalmente, si girò nuovamente dalla mia parte. Una lama di luce tagliò la stanza e si posò sulle sue cosce.
«Te li ricordi gli uccelli, Jean-Luc?».
Annuii.
«Anch’io, ma a fatica». Una tristezza profonda nei suoi occhi. «Adesso il mondo appartiene a loro».
Cosa avrei potuto dire? Cosa avrebbe potuto dire Ornette, se non soffiare nel suo strumento di plastica? Ci fu uno stridio nell’istante in cui il nostro ultimo visitatore cadde dalla finestra, confidando nella grazia di quelle deplorevoli ali.
«Il mondo appartiene a loro e loro lo sanno», disse Susan.
Ovviamente, era estremamente improbabile che sapessero qualcosa, ma mi guardai bene dal sottolinearlo. Nel loro caso, si trattava immancabilmente di fame e istinto. Noi esseri umani abbiamo sempre attribuito alla nostra preziosa intelligenza un valore di gran lunga superiore a quello che si merita. Me l’ha detto mio fratello appena prima di tornare a casa e di gettarsi dal suo balcone del quattordicesimo piano, poco meno di dieci anni fa. Due o tre anni dopo che avevano iniziato ad apparire.
Fuori, il cielo aveva cominciato a schiarirsi. Quelli che ancora non si erano trasferiti in un’altra zona della città adesso sarebbero tornati a dirigersi dove vanno, dovunque sia.
Guardai Susan e me la immaginai mentre spalancava le imposte e si sporgeva dalla finestra. Vidi le sue gambe che scivolavano oltre il davanzale, udii il richiamo beffardo di quell’essere, il frullio d’ali, mentre lei cadeva tra le braccia del futuro.

La presi tra le mie, prima che accadesse davvero.
(Traduzione

di )

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