E se la Rive Gauche fosse stata la Rive Droite? Se cioè la cultura francese fra le due guerre, quando Parigi era la capitale di una nazione e insieme la capitale internazionale della letteratura, fosse vissuta al di là della Senna e non al di qua, fra Montmartre e il Louvre, per intenderci, e non fra Montparnasse e il Panthéon?
L'ipotesi, suggestiva, è avanzata da Giuseppe Scaraffia nel suo L'altra metà di Parigi (Bompiani, pagg. 410, euro 32) ed essendo l'autore un francesista brillante e di lungo corso non va sottovalutata proprio nel suo essere rischiosa, nel senso che sul lato destro di quel fiume che la tagliava in due c'erano soprattutto i faubourg e i grandi alberghi, i quartieri bene e le case di moda, e insomma tutto ciò che nel Novecento intellettuale ha indicato la ricchezza e il lusso, le istituzioni e il decoro, il potere e le sue ramificazioni, il sistema, in una parola, con il relativo corollario che la vera cultura è la contro-cultura, quella alternativa, anti-sistema, appunto, rivoluzionaria, va da sé.
Facciamo un passo indietro, per inquadrare meglio il tema, e partiamo proprio da quelli della Rive Gauche. È un dato di fatto che negli anni Trenta del Novecento il 50 per cento della popolazione universitaria stesse qui e quasi il cento per cento di quella rappresentata dagli allievi delle grandes écoles. In un pugno di vie trovavi concentrata l'editoria di Francia, da Gallimard a Flammarion; un quarto d'ora a piedi era sufficiente per passare da uno scrittore all'altro, da Malraux a Gide... Nel 1936, quando Léon Blum andò al potere con il Fronte popolare, ci fu chi giustamente parlò di uno di noi: era l'incarnazione di una certa repubblica dei professori, gli intellettuali alla guida dello Stato...
Era una guida a sinistra ed era una guida pericolosa in una nazione dove la destra culturale non era accidente, ma sostanza. Il settimanale più venduto, 600mila copie, era il conservatore Gringoire, il quotidiano monarchico L'Action Française, vendeva più copie del Figaro. Il suo leader riconosciuto era Charles Maurras, che proprio in quel 1936 finì in carcere per incitazione all'assassinio e che più tardi entrerà all'Académie française... Maurras stava in rue Verneuil, a due passi dal café Flore, pranzava lì davanti, alla Brasserie Lipp, si definiva «a sinistra della destra» e la sua parola d'ordine era «la politica innanzitutto». Per l'Action Française transitarono un po' tutti, comunisti come Paul Nizan, fascisti come Robert Brasillach, surrealisti come Emmanuel d'Astier de la Vigerie, cattolici come Georges Bernanos. Il suo critico letterario più influente si chiamava Léon Daudet: aveva ammirato Proust, cercherà di far vincere il Goncourt all'esordiente Céline...
Ricapitolando, più o meno abitavano tutti lì, avevano tutti studiato più o meno negli stessi licei, frequentato la stessa università, quella Sorbona che del suo sbilenco quadrilatero era il centro geometrico e simbolico. Mangiavano più o meno nelle stesse brasseries, avevano in comune editori e giornali, si incontravano negli stessi bordelli e capitava che si palleggiassero mogli e amanti.
A questo cosiddetto «partito trasversale del lato sinistro della Senna» Scaraffia oppone intelligentemente non uno, ma molti pezzi da novanta. Proust, per esempio, con il Ritz a fare da baricentro, Colette intorno al Palais Royal, Céline fra Pigalle e il Sacro Cuore, i surrealisti dei passages, per non parlare degli americani che, senza essere Ernest Hemingway e Gertrude Stein, erano non di meno Francis Scott Fitzgerald e Henry Miller...
Gli oppone anche non le brasserie più o meno a buon mercato, La Coupole, La Closerie, ma i locali alla moda, il Gaya, Le Boeuf sur le toit, due nomi ispirati dal genio creativo di Cocteau: «La gente pensa che mi sia messo a dirigere dei bar dove le mie abitudini e la mia salute non mi permetterebbero mai di mettere piede». Per inciso, il Boeuf aveva per stemma un quadro di Picabia, L'Oeil Cacodylate, il piano lo suonavano Poulenc o Auric, ci andavano da Brancusi a Drieu La Rochelle e lo stesso Cocteau, nonostante la sua cattiva salute prima sbandierata, vi suonava la batteria vestito di uno smoking bianco. Quando morì il suo amante e protetto Radiguet, il nome storpiato del locale diverrà il suo nuovo, sarcastico soprannome: Le Veuf sur le toit, il vedovo sul tetto...
Il nome di Radiguet permette di stabilire dei riferimenti cronologici che aiutano a delimitare meglio lo scontro culturale fra Rive Droite e Rive Gauche, nel senso che, come giustamente Scaraffia mette in risalto, la prima precede la seconda per poi incontrarla, e quest'ultima ne diventa la pericolosa rivale soprattutto dalla metà degli anni Trenta. Quando qui insomma c'è ancora la bohème, lì ancora si celebrano gli ultimi fuochi della Belle Epoque. Come riassumerà da par suo Paul Morand: «Come il 1900 verso il 1914, scendevamo verso il 1939 scivolando nell'abisso come nel piacere».
L'altro elemento che mette la Rive Droite su un gradino diverso è quel miscuglio tutto suo di réclame e modernità, salotto e avanguardia. Nel 1932, per esempio, nel suo negozio di rue Miromesnil Colette si reinventa come creatrice di creme di bellezza; dieci anni prima Simenon scommette di scrivere in tre giorni e tre notti un romanzo in una gabbia sospesa sulla terrazza del Moulin Rouge... E ancora: nel 1928 la casa del romanziere Maurice Dekobra ha un bar che emula l'interno di un sommergibile, un salone che replica un vagone dell'Orient Express; nel 1922, nel salotto di Edmée de la Rochefoucauld può capitare, sentendo la padrona di casa fare delle citazioni in latino che qualcuno le replichi: «Oh Madame, quanto deve annoiare i suoi amanti». Comunque ci andavano tutti, da Anne de Noailles a André Maurois, da Paul Valery a Léon Paul Fargue: «Quel che ammiro della duchessa non è la cultura, il titolo, le ricchezze, ma le sue gambe, che sono così belle».
Costruito su 19 capitoli che coprono i 19 arrondissements della Rive Droite, più due dedicati a Neuilly sur-Seine e Clichy, che ne fanno comunque parte, L'altra metà della Senna è una cornucopia di riferimenti, considerazioni, incontri, sorretta da una conoscenza della materia che ha del prodigioso e affidata a uno stile perfidamente elegante nella sua svagata semplicità. Sui surrealisti, il lettore può trovarvi praticamente tutto: manie, tic, tabù, scontri epici, risse sentimentali, con il caffè Cyrano di Place Blanche a fare da centro di reclutamento: «Quel che bisogna fare è diventare infrequentabili» era il loro motto. Siccome a me stanno cordialmente antipatici li prendo in parola e preferisco soffermarmi sulla chiatta che nel 1936 Anais Nin aveva affittato al Quai des Tuileries. Si chiamava La Belle Aurore, era di proprietà dell'attore Michel Simon, aveva per capitano un marinaio con una gamba sola. Oppure su quella che nel 1930 il pittore Henri Mahé teneva ormeggiata al Quai de Bourbon. Malamoa era il suo nome: nel salone campeggiava L'Imperatrice, il ritratto che Mahé aveva fatto della compagna di Céline, Elisabeth Craig. Si ballava, si facevano feste in costume e Céline diceva di essere «il vampiro di Dusseldorf» e di non avere, lui, bisogno di maschere per questo...
Chiudiamo, perché la cultura è anche ciò che si mangia, con il ristorante Prunier, di avenue Victor Hugo, non lontano da Place de L'Etoile. Ci andavano a mangiare le ostriche Proust e Sara Bernhardt, Gide e Julien Green e prima di tutti loro Oscar Wilde. Ci andò nel 1927 Hemingway e gli venne l'idea per un racconto, Colline come elefanti bianchi; nel 1929 ordinò lì con Scott Fitzgerald aragosta Thermidor e Borgogna bianco prima di concedersi un incontro di pugilato: Scott dimenticò di suonare il gong della fine del round e Hem finì ko. Non glielo perdonò mai. Qui per la Rive Gauche non c'è partita, né Tour d'Argent che tenga.
Chiudiamo, perché la cultura è anche piacere estetico, con il Théatre de Champs Elisées, in avenue Montaigne, dove nel 1925 l'Africa era di moda e Josephine Baker, la
sua ambasciatrice, «la più bella pantera e la più affascinante delle donne», ballava nuda tranne una piuma di fenicottero rosa fra le cosce. Anche qui per la Rive Gauche non c'è partita, né Kiki di Montparnasse che tenga.
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