nostro inviato a Busto Arsizio (Va)
Tornare ai classici. Ai capolavori della cinepresa come La parola ai giurati o Il verdetto. Incrociare cinema e giustizia per trovare un rimedio ai mali che affliggono la nostra giustizia. Troppo spesso la legge produce ingiustizia. E allora ci deve essere una spia che si accende, una scintilla che scocca, un fuoco che arde dentro la coscienza del giudice e lo guida dove la legge da sola rischia di non arrivare. Una scommessa vertiginosa che il cinema americano ha colto perfettamente. Prendiamo La parola ai giurati, film cult di Sidney Lumet. I dodici giurati sembrano già orientati a condannare un nero accusato di aver ucciso il padre dopo un litigio. La sentenza sta per rotolare sulla testa dello sventurato giovane come una pietra tombale. Ci sono tre prove apparenti contro di lui: il presunto assassino è stato visto da una signora che si è affacciata alla finestra e da un vecchio, sfortunatamente il ragazzo possiede un pugnale rarissimo, uguale come una goccia a quello che ha firmato il massacro. Luomo è spacciato. Ma nel cuore di uno dei dodici giurati, Henry Fonda, si accende una luce. «È la coscienza che sillumina», come spiega Remo Danovi, avvocato, ex presidente del Consiglio nazionale forense, professore di deontologia. Fonda, comincia a farsi domande su domande e quelle domande, dettate dalla passione per letica, bucano la crosta del pregiudizio, del formalismo, dellideologia, del luogo comune, della sciatteria.
Quelle domande sono una sonda che corre verso la verità. In quel caso linnocenza dello sfortunato ragazzo. Fonda dimostra che la donna non può aver visto, perché in quel momento la sua visuale era ostruita da un treno; luomo, zoppo, è arrivato tardi; il pugnale si può trovare sulle bancarelle e non è un pezzo da museo. Linnocente, come il colpevole, semina indizi, ma sono indizi della sua innocenza e il giurato che non chiude gli occhi li scova uno a uno. Se Fonda, da solo, è riuscito a convincere gli altri undici giurati nellAmerica del dopoguerra, perché questo meccanismo virtuoso non dovrebbe funzionare da noi?
Ecco allora lidea di entrare in sala, spegnere le luci e riguardare alcune pellicole dai titoli gloriosi per imparare come si struttura la coscienza e come letica può alzarsi, al pari di unonda, e portare via difetti e scorie dellapparato. È nato così il primo legal day, un mix di proiezioni e relazioni, una maratona di parole e immagini, un percorso fra cinema e giustizia, voluto da Remo Danovi e Alessandro Munari, civilista di lungo corso e presidente dellIstituto cinematografico Michelangelo Antonioni. Giornalisti, come il vicedirettore di «Panorama» Maurizio Tortorella, penalisti come Jacopo Pensa; giudici, come Massimo Maiello: si sono dati appuntamento nella cornice di Villa Calcaterra a Busto Arsizio e hanno messo insieme storie, riflessioni, appunti sulla strada impervia che dalla legge porta alla giustizia. Il tutto a ritmo di spezzoni immortali: dopo il capolavoro di Lumet ecco «Anatomia di un omicidio», con James Stewart e Ben Gazzara. Il tenente Frederick Manion ha ucciso con cinque colpi di pistola il proprietario di un bar che aveva violentato sua moglie. Il processo si annuncia facile, limputato è reo confesso, il pubblico ministero corre verso la condanna. Ma lavvocato difensore, Paul Biegler, prende terribilmente sul serio il proprio mandato difensivo: Manion viene assistito fino in fondo, cercando la via duscita. E la «soluzione» salta fuori in extremis. La giuria assolve.
Ancora una volta la differenza lha fatta un uomo, Biegler, che è uscito dal ruolo e ha giocato una partita difficile sul bordo della legge, forzando la norma, ma senza infrangerla. «Letica - riassume Danovi nel suo saggio Processo al buio - è il diritto degli altri».
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