Peccato che dalla voluminosa corrispondenza di Arthur Schnitzler che, con lindispensabile corredo di unampia scelta del journal intime, costituisce il nucleo del recente volume curato da Giuseppe Farese per la Feltrinelli (Diari e lettere, pagg. 560, euro 35) manchi qualsiasi traccia di uno scambio epistolare con Freud.
Lovvia conclusione sarebbe che non ci sia mai stato, ma noi ci crediamo poco, dati i cordiali rapporti tra il padre della psicanalisi e colui che, dalle pagine dei romanzi come dalle folgoranti battute dei drammi, a ragione può essere definito il poetico cantore della psicologia del profondo. Tanto più che tra lo psichiatra Arthur e linvestigatore di ogni possibile Totem e tabù ci fu ben più di una conoscenza casuale. Come testimonia, tra laltro, il succinto resoconto dellinvito a cena rivolto da Sigmund allallievo per festeggiare i sessantanni di questultimo la sera del 16 giugno 1922 nella sua bella dimora piena di manoscritti, di bronzetti e di arredi che la assimilavano a un inquietante museo di relitti e reperti di un ancestrale passato lentamente rimosso alla luce obiettiva della conoscenza.
Un incontro fatidico scandito dal lungo perìpatos di sapore socratico dalla casa di Freud allabitazione di Schnitzler nellafrore della notte estiva. Quando i due gentiluomini che si credevano ormai consegnati alletà canonica dei rimpianti e allevocazione dellaureo passato delletà absburgica (a quellepoca i sessantanni segnavano, nellimmaginario sociale, il doloroso spartiacque tra i sogni giovanili e la delusione di una maturità avviata a un inesorabile declino) discettarono a lungo sulla crisi della civiltà e linsidioso affiorare dellultima indifferibile scadenza.
Come mai in quella lunga promenade in cui di comune accordo fu sepolta la Vienna imperiale di una Belle Epoque di prammatica attestata nei séparé degli hotel guglielmini tra le dorature di princisbecco che incorniciavano gli estremi palpiti amorosi dei signori in frac con le grisette che ancora si sforzavano di parlare la lingua di Goethe, luomo che inventariò il lungo delirio di Dora e quel coetaneo che descrisse in accenti patetici il delirio ferale della Signorina Else che preferisce andarsene dal mondo piuttosto di concedersi alle voglie impudiche di un satiro, abbiano luno come laltro preferito annegare limportanza dei temi trattati tra le cupe ombre che si addensavano sul Ring, rimarrà sempre un mistero. Anche se, nella scarna cronaca in differita di quelleccezionale passo a due, non manca da parte di Arthur una nota di squisita perfidia. Quasi una goccia di laudano sfuggita dal calice che, due anni dopo la visita a Freud, troncherà la vita di Else, veniamo infatti a sapere che legregio professore gli avrebbe «confidato certe sensazioni alla Solness» a lui «del tutto estranee».
È unammissione che apre uno spiraglio improvviso e lacerante sulla poetica di Schnitzler anche se, lo ripetiamo, il Nostro si limita a vergare en passant, quasi ne fosse inconsapevole, questo accenno risolutivo. Perché Sigmund avrebbe dovuto rifarsi al dispeptico alter ego di Ibsen? E come mai avrebbe dovuto riferirsi, nellincombente baluginare dellorrore nazista, non alla severità autolesionista del grande nordico fin-de-siècle ma proprio al grande eroe sui generis dellassoluto negativo, di professione architetto, che invano sillude di aver elevato al cielo la torre di un sapere destinato a inabissarsi con lui non appena ne saggerà lintima fragilità? In questo rispecchiamento tra lo scienziato Freud, architetto teso a svelare il meccanismo di un homo sapiens condannato a restare a lui stesso ignoto, giace leredità che, quella notte di giugno, Sigmund regala a colui che considera, con ogni evidenza, il suo «doppio»: il poeta che ha consegnato larida disamina del sintomo clinico alla sfera immortale dellarte. Un appunto che, solo in apparenza, Schnitzler finge di relegare nellinfinita schiera dellaneddotica.
Scegliendo che il futuro esegeta del suo diario ne svaluti limportanza, lautore del Ritorno di Casanova non si avvede di ripercorrere in quella sbrigativa notazione a margine il cammino che nel 1918, dopo il sanguinoso esito di un conflitto che smembrò per sempre la Felix Austria di un tempo, aveva mirabilmente parafrasato nel personaggio dellavventuriero veneziano. Un ritratto a specchio, oltre che un ritratto a tutto tondo, in cui, anticipando inconsciamente Freud, Schnitzler si consegna ai posteri annullando con un drastico tratto di penna lo iato della storia. Con questo vogliamo sottolineare che, come Freud dolorosamente si descrive attraverso Solness, Schnitzler prima di lui raffigura se stesso e la propria parabola finale attraverso Casanova. Gli amori ed amoretti parafrasati in Liebelei che attirarono su di lui il commento velenoso di Karl Kraus («si è fabbricato un piccolo mondo di viveurs e sartine per salire da questo infimo grado a una falsa tragicità») come lindugio adolescenziale sull«attraente biondina» che dalle pagine del Diario vediamo librarsi nella sala da ballo dei Tre Angeli vengono sublimati nei rapidi sussulti erotici del seduttore-scrittore più rappresentativo del Settecento europeo.
Che, nello specchio ustorio del suo io in decadenza tuttuno alla sua immagine di amante ideale, trafigge nel corpo agile e scattante del sottotenente Lorenzi la giovinezza del mondo in cui si era identificato.
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