Quando il Duce nascose in America l’oro della Patria

Il governatore della Banca d'Italia in una lettera del 1939 dà istruzioni per trasportare negli Usa 25 tonnellate di metallo prezioso. Ma qualcosa non torna...

Quando il Duce nascose in America l’oro della Patria

La notizia - alla quale darà ampio spazio il numero di Gente in edicola oggi - è rilevante. L’Italia fascista, che nel maggio del ’39 aveva firmato il «patto d’acciaio» con la Germania nazista e che il 10 giugno del ’40 avrebbe dichiarato guerra alle democrazie occidentali, «mise al sicuro» una gran quantità d’oro della Banca d’Italia negli Stati Uniti. L’operazione fu spiegata in una lettera (2 marzo ’40) dell’allora governatore di Bankitalia Vincenzo Azzolini al ministro per gli Scambi e le Valute, Raffaello Riccardi. Dai primi di marzo del ’40 ai giorni immediatamente precedenti l’intervento mussoliniano, 25 tonnellate d’oro - valore: 27 milioni di dollari e 541 milioni di lire del tempo - vennero trasportate con il transatlantico «Rex» al di là dell’Oceano.

Una parte di quei fondi fu poi utilizzata per finanziare le ambasciate in America Latina. Due giovani diplomatici, Robero Ducci e Girolamo de Bosdari, ebbero l’incarico di portare a Rio de Janeiro due valigie contenenti un milione e mezzo di dollari. Completo i cenni fattuali tratti da Gente ricordando che la documentazione su questo intrigo politico-economico è custodita nell’archivio Riccardi, affidato a un museo creato a Genova dal miliardario di Miami Mitchell Wolfson.
I fatti sono chiari, lo sono molto meno le deduzioni cui essi si prestano. La più ovvia è che sia stata una manovra finanziaria con cui, in vista d’una futura partecipazione al conflitto, il governo italiano intendeva assicurarsi una cospicua disponibilità di denaro.

A conforto di questa tesi, le frasi con cui veniva spiegato che gli Usa «non hanno preso misure per i depositi degli Stati belligeranti, solo per gli Stati occupati». In base a questa considerazione formale una montagna d’oro sarebbe stata imbarcata sul «Rex». Il ragionamento non mi pare del tutto convincente. Poteva Mussolini, cui nessuno nega intelligenza, ignorare che gli Usa, pur formalmente estranei al conflitto, erano di fatto al fianco della Gran Bretagna e della Francia? Poteva ignorare che se si fossero impegnati nell’immane scontro, l’avrebbero fatto contro la Germania? La mossa mussoliniana, se fondata su questo e soltanto su questo, sarebbe una prova clamorosa di dilettantismo. Oltretutto mancavano gli stimoli temperamentali che determinavano i colpi d testa del Duce.

Ma la vicenda non è di quelle che sollecitavano i suoi impulsi. È ragioneria, gestita da un personaggio riflessivo e prudente come il governatore Azzolini. Si deve allora leggere la manovra come un gesto di sfiducia nei confronti della Germania? Siamo, con le istruzioni di Azzolini, ai primi di marzo del ’40, e il 18 di quel mese il Duce incontra il Führer al Brennero, dove promise di «marciare con la Germania» riservandosi tuttavia la scelta del momento in cui l’avrebbe fatto. Nello stato d’animo in cui era, il Duce poteva ragionevolmente osare un gesto anti-tedesco oppure - ed è ancor meno verosimile - preoccuparsi della sorte che avrebbe avuto l’oro italiano quando i tedeschi, vincitori o vinti o chissà cos’altro, avessero voluto metterci sopra le mani?

No, la mossa del governo fascista non ebbe - questa è la mia opinione - un movente o alcuni moventi che avessero attinenza con le grandi strategie e con le grandi ideologie. Mussolini, ancora in dubbio sull’agganciarsi totalmente a Hitler - lo risolse, il dubbio, quando seppe che le Panzerdivisionen irrompevano verso Parigi - non ebbe nessuna intenzione di dare uno schiaffo o almeno d’attestare sfiducia alla Germania. Non questo ci racconta - è sempre, lo ribadisco, una mia discutibile opinione - il carteggio ora affiorato. Racconta, secondo me, qualcos’altro. Mussolini sottovalutava gli Stati Uniti. Diceva Giovanni Ansaldo che se il Duce, provinciale di talento, avesse visto una volta l’elenco telefonico di New York - venti volte quello di Roma - gli sarebbe passata ogni voglia di stuzzicare gli americani. In quei giorni vide il sottosegretario agli Esteri Sumner Welles inviato da Roosevelt.

Non si piacquero reciprocamente. Sumner Welles descrisse Mussolini «statico e massiccio piuttosto che vigoroso».

Per Mussolini gli americani, simpatizzanti delle democrazie, contavano poco, e non sarebbero entrati in guerra, comunque fossero andate le cose. Dunque gli Usa erano un santuario sicuro per l’oro di Roma. Un’altra profezia che non si può dire fosse proprio azzeccata.

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