Quando il giudice Scalfaro uccise la prima Repubblica

Giovanardi ricostruisce la notte del 7 marzo ’93: la mancata firma sul decreto Conso che avrebbe depenalizzato il finanziamento ai partiti

Quando il giudice Scalfaro 
uccise la prima Repubblica

È il voltafaccia che ha seppellito la Prima repubblica. Tre giorni di passione, tre giorni per fare e disfare la tela di un decreto e per dire addio alle ultime chance di salvataggio di un sistema durato, bene o male, per mezzo secolo. Carlo Giovanardi che sul tema ha tenuto lo scorso anno un convegno non ha dubbi: fu tradimento e ad affossare il decreto fu Oscar Luigi Scalfaro. «Se quel decreto fosse stato firmato - nota Giovanardi - la prima Repubblica sarebbe sopravvissuta, sia pure malconcia». Invece la notte del 7 marzo Scalfaro si rimangiò la parola data e rimandò al mittente quel pezzo di carta. Per un sistema ormai sul punto di collassare, fra manette e avvisi di garanzia, fu il colpo di grazia. «Sarebbe bastato approvare quella norma - aggiunge Giovanardi - per gestire un futuro diverso, per avviare una transizione morbida verso nuovi assetti, comunque per salvare quel che di buono era stato costruito nei decenni precedenti». Non si salvò nulla. Il naufragio si portò vai tutto.
La norma, varata dal Governo Amato, in particolare dal Guardasigilli Giovanni Conso, era assai semplice: depenalizzava il finanziamento illecito, reato sconosciuto fino all’esplosione di Tangentopoli e poi grimaldello per scardinare tutti i vecchi partiti e colpire un’intera classe politica. Scalfaro, secondo la ricostruzione del sottosegretario alla Presidenza del consiglio, lesse il testo e lo benedisse. Letteralmente. Convocò tre parlamentari e disse che quella norma era sacrosanta. Anzi, li richiamò poco dopo per dire loro che si erano dimenticati di recitare un’Ave Maria alla Vergine e pregare per la vittoria di quella battaglia morale. Sembrava fatta. Ma il testo uscito dal Consiglio dei ministri e portato di corsa al Quirinale rimase prigioniero del Palazzo. Che cosa accadde la notte in cui venne assassinata, secondo Giovanardi, la prima Repubblica? Forse, Scalfaro si consultò, articolo per articolo, punto per punto, con Francesco Saverio Borrelli, uno degli uomini più potenti d’Italia in quel frangente. E il verdetto del kaiser di Mani pulite fu perentorio: bocciatura senza appello. Contemporaneamente, il pool Mani pulite ribattezzò spregiativamente quella norma decreto salvaladri; la solida imbarcazione uscita da Palazzo Chigi si rivelò una barchetta di carta. E la sua navigazione finì ingloriosamente ancor prima di cominciare.
Il pomeriggio del 7 marzo, con il pollice verso del pool, Scalfaro annunciò che non avrebbe firmato. Anche se, insieme a deputati e senatori, aveva ardentemente chiesto a Maria il sostegno morale per la riuscita dell’operazione. Il decreto fu ritirato e dimenticato in fretta, come un figlio indesiderato. Senza padre. Mani pulite salì ancora d’intensità. Si preparavano i mesi ruggenti dell’estate ’93, la morte del Presidente dell’Eni Gabriele Cagliari nel «canile» di San Vittore, il suicidio con un colpo alla tempia di Raul Gardini il giorno in cui sarebbe stato arrestato. Il 28 ottobre ’93 iniziava poi il processo Cusani, la piccola Norimberga della Prima repubblica, la fine di un’epoca fra i balbettii di Arnaldo Forlani, con la bava alla bocca, e le grintose risposte di Bettino Craxi ad Antonio Di Pietro. Inutile immaginare un finale diverso.
La Prima repubblica è scivolata via senza troppi rimpianti, almeno sul momento. La corruzione, invece, non è stata debellata, come insegnano le troppe inchieste di queste settimane, gli scandali, le ruberie da una parte all’altra del Paese. Ancora oggi molti si domandano se rubare per il partito, ovvero ricorrere alla pratica del finanziamento illecito, non sia peggio che rubare per sé, come le schiere di corrotti intercettati dai Pm in questi anni. Tema controverso e scivoloso. «Quel che però non è accettabile - sottolinea il senatore del Pdl - è il modo in cui si trascinò l’agonia della Prima repubblica, ovvero del parlamento cosiddetto degli inquisiti. In pratica un’intera classe politica si trasformò in preda, impallinata giorno dopo giorno da una pioggia di avvisi di garanzia spediti dal pool e da molte altre procure, in gran parte per finanziamento illecito. Dobbiamo aggiungere - è la conclusione - che molti di quei deputati furono infine assolti ma quel Parlamento, sferzato dal vento del giustizialismo, fu sciolto d’autorità da Scalfaro nel ’94. E la Prima repubblica fu definitivamente tolta di mezzo». «Il bucato - dirà Borrelli - lo hanno fatto gli avvisi di garanzia».
Insomma, se l’omicidio fu commesso dal capo dello Stato, il suggeritore dietro le quinte era il capo del Pool.

E fu la magistratura a dettare la linea e a mettersi di traverso alla volontà del parlamento. Altri tempi. Di più, in un impeto di follia suicida, le camere agevolarono il compito degli inquisitori, cancellando l’immunità. Oggi, diciassette anni dopo, quello scudo è ricordato con crescente nostalgia.

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