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Quando la giustizia si fa politica Ieri come oggi

Quando la giustizia si fa politica Ieri come oggi

«La giustizia è sempre pronta a fuggire nel campo dei vincitori», recita un antico proverbio, sul quale vale la pena di riflettere, oggi, non fosse altro per dimostrare che l'espressione «giustizia politica» non corrisponde a uno slogan politico o elettorale ma definisce invece un fenomeno comune a tutte le epoche. Lo scopo politico della giustizia - ha detto Otto Kirchheimer (Giustizia politica, liberlibri, 2002) - può essere rivoluzionario o conservatore, può servire l’interesse di chi vuole pervenire al potere, oppure nascere dalla pura e semplice arroganza di chi lo detiene, può, infine, venire utilizzato da regimi totalitari ma anche finalizzato all’interesse di partiti o gruppi di pressione che agiscono in regimi democratici. Del tutto accessorio è il titolo di legittimazione di coloro che arrivano, in questo modo, alla affermazione delle loro pretese di potere. L’essenziale è invece il fatto che, per raggiungere questo risultato, si sia scelta la via della procedura giudiziaria. Emerge, così, la contraddizione interna tra il mezzo giuridico e il fine politico che con esso viene perseguito. Il secondo è indirizzato a confermare dei rapporti di forza o a configurarli in maniera nuova, a favore di una sola parte, mentre l’ordinamento giudiziario esiste allo scopo di risolvere conflitti - tra individui, gruppi politici, economici, sociali e tra questi e lo Stato - sulla base di regole comuni e da tutti condivise. Tra queste due sfere che governano la vita associata esiste tuttavia un rapporto di tensione e di reciproca concorrenza ineliminabile. Il diritto cerca di concretizzare valori generali e di farli riconoscere all’unanimità, ma la politica, mentre si sottrae costantemente a questa regolamentazione della sua attività, rischia di snaturare il principio costitutivo della giustizia: l’imparzialità. Anche l’Italia del secondo dopoguerra, fu teatro di un sistematico uso politico della giustizia. Mi riferisco alle modalità attraverso le quali si passò, tra ’43 e ’46, dal progetto di una rigenerazione morale della società italiana, dopo l’«intervallo» costituito dai decenni del regime, a una pratica di reclutamento del personale fascista massicciamente praticato da tutte le forze politiche repubblicane. Negli stessi meccanismi giuridici dell’epurazione antifascista si celavano i modi di una «giustizia politica», così la definiva Benedetto Croce, che si sarebbe trasformata rapidamente in una ben articolata tattica di dosaggio delle tecniche del bastone e della carota, in base alla quale se era legittimo «perdonare subjectis» (qualunque fossero state le loro responsabilità passate), egualmente giusto risultava «debellare superbos». A questo stesso adagio latino, Giovanni Gentile aveva ispirato la sua tattica di «transigenza» tra fascismo e intellettuali dissidenti o «afascisti» nel dicembre 1925, mentre ai superbi, appunto, agli irriducibili oppositori si sarebbe minacciato, più tardi, di utilizzare le stesse rigide misure di proscrizione messe in atto dall’Italia liberale per portare a termine il suo cammino unitario, quando, dopo la caduta del Regno borbonico, per decisione del ministro dell’Istruzione, Francesco De Sanctis, furono messi alla porta «in un sol giorno, tutti i membri dell’Accademia Reale di Napoli, per far posto a filosofi, giuristi, archeologi, letterati e scienziati del nuovo regime». Quello stesso episodio veniva utilizzato anche da Benedetto Croce, in una nota dei suoi Taccuini del primo giugno 1945. A quella data, il filosofo, che si era posto a capo della commissione di epurazione dell’Accademia dei Lincei, rispondeva alle critiche di Vittorio Emanuele Orlando, che aveva protestato «contro le radiazioni che abbiamo proposto di un certo numero di socî politicamente compromessi e screditati, senza aver contestato ad essi le accuse e senza un procedimento correttamente legale». La replica di Croce era così formulata: «Gli ho ricordato quel che accadde a Napoli nel 1861 per l’Accademia reale. Allora si adottò addirittura la formula: “destituiti in omaggio alla pubblica opinione”». Di quella formula non si è cessato, mi pare, di fare uso nel quadro di una spregiudicata tattica di conquista del potere, nella quale il tintinnar delle manette si è qualche volta sostituito a quello delle sciabole, come rumore di fondo di un nuovo strumento di lotta politica: il «colpo di Stato giudiziario».


eugeniodirienzo@tiscali.it

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