Ma le parole a cosa servono? Lo chiedo innanzitutto agli scrittori. Da settimane, in mezzo a drammi nazionali e mondiali che ci toccano in ogni modo, e tengono sospesi i nostri pensieri sulle immagini di un destino sempre più incerto, per noi e soprattutto per i nostri figli, sembra che non ci sia rimasto altro che il pettegolezzo, l'insinuazione, il risvolto piccante, le dichiarazioni della zia e della nonna.
Io non scrivo in difesa di Berlusconi, che non ha bisogno delle mie difese, e le cose che dico le direi pari pari su qualunque altro giornale, compresa Repubblica. Il problema non è il pettegolezzo, che è sempre esistito, così come linsinuazione, che talvolta è addirittura indispensabile, perché certe cose bisogna mandarle a dire: dirle e basta sarebbe inutile.
Il problema è che non esiste più nientaltro che questo, e che la parola - sulla quale uno scrittore lavora per tutta la vita, con pazienza e spesso senza nessuna ricompensa, allo scopo di renderla capace di dire - acquista sempre maggiore efficacia quanto più è sciocca, banale e disonesta.
A poco a poco, per usare unimmagine pugilistica, i soli colpi efficaci (e tollerati, e auspicati, e benedetti) sono diventati i colpi sotto la cintura.
Il problema è che, da un certo momento in avanti, senza avvedercene, siamo tornati alla logica delle faide, e che soprattutto nel racconto politico il familismo ha preso il posto della ragionevolezza, del dialogo. Nessuno ha più voglia di dialogare, e questo è un dato di fatto. Nei secoli le migliori idee sono sempre nate da conversazioni, spunti, da quel dare-e-avere talora consapevole talora inconsapevole di cui la vita è fatta. Oggi poco manca che si metta il copyright anche sulle singole parole, per rivendicarle come spazio da occupare.
Negli anni Cinquanta un sociologo americano studiava la logica familista come un rimasuglio, destinato a scomparire, della società pre-moderna, erede del mondo tribale. Come si sbagliava! Come è franato per sempre, a dispetto del centenario darwiniano (povero Darwin), il sogno delle magnifiche sorti e progressive. Dieci, cento, mille capoccioni sono in grado di spiegarmi perché il caso Noemi è importante per lItalia, quale futuro a tinte fosche disegna per il nostro Paese: i loro articoli ve li potrei scrivere qui, subito. Resta il fatto che io desidero poter vivere la mia vita fregandomene del caso Noemi e concentrando la mia attenzione sul modo di dare al mio Paese tutto quello che posso. Ed è un brutto segno quando non ci è data la possibilità di fare questo, e le nostre parole vengono pesate solo in base al potere che producono o assecondano.
In un mondo in cui contano solo il potere, i soldi e il successo le parole sono diventate merce. E quando il gioco per il potere si fa duro, come adesso, allora, chissà perché, diventa lecito passare dal fioretto al carro armato, dal carro armato alla bomba atomica. E ciascuno si sente legittimato dalla scorrettezza dellaltro per diventare ancora più scorretto.
In un mondo del genere è però lecito anche sentirsi dei perfetti stranieri, e tale sto diventando io, e me ne dispiace, perché amo immensamente questo mondo. Mi domando però perché gli scrittori, anziché mettersi a fare i ministri-ombra o gli assessori-ombra, non insorgano, tenendo alta la bandiera del loro lavoro, della loro fatica, dellonestà alla quale sono obbligati (quale che sia il loro orientamento estetico) affinché le parole siano messe in grado non solo di fare del male ma anche, vivaddìo, di dire qualcosa.
E non mi parlate, per favore, del diritto di cronaca, che è tuttaltra cosa. Lo sa anche un asino che le stesse notizie, dette in un modo o nellaltro, cambiano significato, e che in questo sta per la massima parte la responsabilità di chi fa informazione.
Cè chi dice che siamo già da tempo in un regime di dittatura soft. Io non ci credo, però so che questo potrebbe succedere ben presto, e in modo assai poco soft. Ciò che non è scontato, e che in molti invece danno per scontato, è il «chi», il «da dove».
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