Quando il potere è senza limiti

Chi ha visto in teatro il Cyrano de Bergerac ricorderà tre momenti della commedia eroica di Rostand. Rinfreschiamo la memoria citando la brillante resa di Oreste Lionello, nella riduzione per il grande schermo di Jean Paul Rappenau (1990). «Ecco, io ho... del prurito alla cosa... Adora queste uscite, le ama carnalmente!» esclama Cyrano, ponendo mano alla spada - da lui decantata come unica protettrice di un uomo senza guinzagli - per infilzare, con un’irridente ballata, il nobilastro Valvert. Il duello è all’epilogo, quando irrompe la polizia a cavallo di Richelieu per sedare il disordine.
Siamo ora nella caserma dei Guasconi. L’untuoso aristocratico De Guiche propone all’intrepido fiorettista di entrare nelle grazie letterarie di suo zio, il Cardinale per antonomasia, dedicandogli una tragedia che il barocco mecenate, al più, ritoccherà in un paio di battute. «Il mio sangue si coagùla, solo al pensiero che mi si cambi una virgùla» ribatte Cyrano. Poco prima che cali il sipario, il Guascone, colpito a morte in un attentato, si fa forza e visita al convento l’amata Rossana, che non si avvede del guasto ed è lieta che l’ammiratore le porti notizie fresche da Parigi, come una vivente gazzetta. «Giovedì, la corte si trasferì a Fontainebleau. Venerdì venticinque, la bruna Mancini disse no al mattino e la sera disse sì. E sabato ventisei...» mormora il ferito, prima di crollare.
La repressione dei duelli, il controllo degli intellettuali, l’informazione giornalistica. Abbellimenti retorici di Rostand o frutto di riflessione storica, da parte di un poeta attento ai dettagli (la maliziosa Mancini è una nipote di Mazzarino, accreditata delle grazie del Re Sole)? Troviamo risposta nelle pagine di Emmanuel Le Roy Ladurie, L’Ancien Régime. Il trionfo dell’assolutismo, analisi indispensabile a capire il macchinario del potere della Francia che si affaccia alla modernità, dall’ascesa al trono di Luigi XIII (1610), alla morte di Luigi XIV (1715), corrusca epoca di Cyrano Savien de Bergerac (1619-1655), anch’egli figura reale di scrittore «libertino» (cioè indipendente e d’avanguardia), contornato da «accademici» e da «preziose».
Il volume documenta genesi e fulgori dell’assolutismo, dopo la monarchia temperata di Enrico IV, la sovranità del re che «non è divisibile, come il punto geometrico» secondo una razionalistica definizione del tempo, un dominio che produceva simultaneamente il potere esecutivo, quello giudiziario e (soltanto se necessario) quello legislativo. Per inquadrare lo stato, il capo si serve del superministro, il plenipotenziario: se il re è il sole, che vivifica, ma anche dissecca, Richelieu è il mercurio, l’antidoto ai cancri che possono minare il trono, siano essi, all’esterno della fortezza gallicana gli Asburgo o la Spagna, all’interno gli Ugonotti o i dissenzienti. Se il duello è il vessillo di un’aristocrazia riottosa e ancora innamorata delle intemperanze feudali, bisogna estirpare quest’usanza pseudoeroica con gli sbirri. Semmai, mettere in riga il sangue caldo dei rampolli nelle guerre incessanti al servizio della Maestà statale.
Il Mosè di uno Jahvè più vendicativo e tirannico che misericordioso (Richelieu si faceva ritrarre, splendido satellite, al fianco del re e, mago dell’immagine pubblica, in piedi, postura finora riservata a monarchi, generali, statisti laici) giganteggia anche nella cultura: autore egli stesso, pretende di usare il rossoblù anche sui compiti altrui (sua l’idea di un’Académie Française, vivaio di consenso). La stampa periodica, le gazzette, nascono qui, giornalismo politico di orientamento autoritario, di disinformazione augusta, se gli editoriali erano a firma di Richelieu e del Borbone. L’assolutismo (tasse, economia, burocrazia) fu oliato dai successori, Mazzarino e Colbert. La differenza? Qualche decina di milioni.

Venti ne lasciò in eredità Richelieu. Più del doppio Mazzarino, che arrivava da Roma povero in canna. Segno che la ragion di stato poteva diventare delirio, confusione miliardaria fra casse di regime e portafoglio privato.

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