Quarantenni alla caccia del Leone Questo non è un festival per vecchi

No, non è una Mostra per vecchi. Lo si capiva già dall’esclusione del veterano Pupi Avati, 72 anni e un film sull’Alzheimer da mandare in gara, come girava il vento del Lido. Aria fresca per la Mostra Internazionale d’Arte cinematografica (1-11 settembre),dunque, giunta alla 67esima edizione e così timorosa di sembrare antiquata, mentre il mercato si fa globale e il 3D diventa reale e Toronto apre magnifiche sale, da prodursi in un calcolo: 45,523 gli anni del regista medio festivaliero. Negli Usa ti riderebbero dietro, ma nell’Italia gerontocratica fa sensazione una pattuglia di quarantenni all’assalto di Leoni e leoncini: dalla newyorchese Sofia Coppola (38), in prima mondiale con Somewhere al romano Ascanio Celestini, classe 1972, preferito ad Avati con La pecora nera; dal berlinese Tom Tykwer, col suo Drei (Tre) al figlio di Costanzo, Saverio, forte de La solitudine dei numeri primi, fino a Darren Aronofsky,(41) in apertura col suo Black Swan (Cigno nero), di creativi attempati se ne annunciano pochi. «Ma l’Alzheimer è di destra o di sinistra?», sfotte il navigato direttore artistico Marco Müller, smorzando la polemica dei giorni scorsi con Avati e presentando il cartellone insieme al presidente della Biennale Paolo Baratta.
E proprio questi dà il segnale dei tempi che cambiano, snocciolando cifre e costi in prima battuta. «Il Festival costa 12 milioni di euro, le spese vive ammontano a 10 milioni e lo Stato ci ha messo 7.700 milioni», Baratta leva la sete col prosciutto a quanti vogliano fare le pulci al budget, con vena polemica. «Questo è l’anno del buco in più: niente soldi per aprire la sala Perla 2, quindi spazi ridotti e linea di sobrietà: mai riposare sui cosiddetti allori», prosegue il manager, che punta sul mercato on demand. Vale a dire? Tutti insieme, tutti in piazza. Senza cinema alto, o cinema basso. E basta con le ingessature dei generi, con la falsa lotta «commerciale» versus «autoriale». Chi c’è, c’è perché funziona, con buona pace di chi sostiene che Venezia sia una baracca, i cui burattini hanno due pupari: Rai Cinema e Medusa. Non è che i Grandi Vecchi li abbiano affogati in laguna: riecco l’ultracentenario Manoel de Oliveira, con un corto di sedici minuti e di nuovo Marco Bellocchio, giovanotto nato nel 1939, fuori concorso con «un piccolo film di fantasia», Sorelle mai, e Martin Scorsese, con un omaggio a Elia Kazan. Ieri, per dire, è rispuntato anche Citto Maselli, a rivendicare il ruolo dei registi indipendenti, ignorati dall’annunciato convegnone dell’Anica. E, comunque, nessuno se lo è filato. È lo Zeitgeist, bellezza. E lo spirito del tempo dice che qui, e ora, dobbiamo darci dentro per sopravvivere. Pure dalle parti della Serenissima. E sono quarantuno i film italiani al Lido, quattro dei quali in concorso: La solitudine dei numeri primi di Costanzo jr., dall’omonimo bestseller mondadoriano; Noi credevamo, film storicizzante di Mario Martone, La Passione di Carlo Mazzacurati e La pecora nera di Celestini saranno in prima linea ed è inutile cercare un filo rosso che li leghi, tanto diversi gli stili. Lo strombazzato Vallanzasca - Gli angeli del male, firmato da Michele Placido, sfila fuori concorso, come Gabriele Salvatores, che porta 1960 e Giuseppe Tornatore, defilato con un biopic sul produttore della Titanus Goffredo Lombardo, L’ultimo Gattopardo. «Vogliamo essere fedeli alla denominazione di Mostra internazionale, da una parte e, dall’altra, non vogliamo separare il cinema commerciale da quello con la “C” maiuscola», avverte Mueller, insofferente ai formati.

Avanza il digitale in 4K, Internet fornisce più agilità (non a caso anziani registi autorevoli girano corti e li mettono su YouTube), per cui «non ha senso chiedere alla Mostra fedeltà al cinema». E la passione per l’Oriente e certi invendibili film sudcoreani o centrothailandesi? «Mi rinfacciano la programmazione esotica? Ho scelto cineasti, che hanno impresso una scelta personale al cinema in serie».

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