Nel nostro Belpaese le crisi ministeriali si sa come cominciano ma non si sa mai come finiscono. Perfino quelle che gli addetti ai lavori hanno definito «pilotate» al loro manifestarsi, sovente sono diventate al buio in men che non si dica. Tant'è che gli scioglimenti anticipati delle Camere, durante una lunga stagione iniziata nel 1972, da eccezione sono diventate la regola. Nulla di patologico, intendiamoci. Perché l'appello al popolo è una caratteristica di un ordinamento democratico. Che, per ripetere la celebre frase di Abramo Lincoln, è il governo del popolo, per il popolo, attraverso il popolo. È chiaro però che Prodi, dimettendosi dopo essere uscito con le ossa rotte dall'aula di Palazzo Madama, non deve aver messo nel conto un ritorno alle urne. Sbollito il furore, ha sperato in una sceneggiata. Non aveva forse affermato Amintore Fanfani, il montanelliano «Rieccolo», che dopo la Quaresima c'è la Resurrezione?
Prodi però deve aver fatto i conti senza l'oste. Perché il primo a dubitare che tutto si possa aggiustare con tanto di tarallucci e vino è per l'appunto il presidente della Repubblica, che nelle sue prime mosse è stato di una chiarezza esemplare. Giorgio Napolitano prima ha smentito la favola metropolitana secondo la quale lui sarebbe stato contrario a una formale crisi ministeriale. Poi, rincarando la dose, ha posto l'accento sulla «particolare complessità della situazione venutasi a determinare». Infine, «ha deciso di consentire ai presidenti dei gruppi parlamentari di associare alle consultazioni i leader dei rispettivi partiti». Questi ultimi, insomma, da protagonisti vengono retrocessi a comprimari. E certo non a caso. Napolitano deve essersi ricordato di come la pensava Vittorio Emanuele III. Secondo il vecchio re, le sue orecchie e i suoi occhi non potevano essere altri che quelli del Parlamento.
Insomma, i capipartito - quelli di centrosinistra, si capisce - possono dire quello che vogliono. Ma chi ha il polso della situazione non sono costoro ma i capigruppo parlamentari. Se questi ultimi al Senato per nove mesi hanno fatto miracoli, è stato solo grazie alla benevolenza dei senatori a vita. Che del loro operato rispondono solo a se stessi. Di più. Napolitano ha sondato le forze politiche una alla volta, in una sorta di laico confessionale, per accertare al di là di ogni ragionevole dubbio se per incanto il centrosinistra sia risorto dalle ceneri come l'araba fenice. Il guaio è che né Prodi né i suoi compagni di strada possono garantire all'uomo del Colle una cosa del genere. Anzi, sembra che facciano a gara per svelare un segreto di Pulcinella. E cioè che la coalizione di centrosinistra non ha più e non potrà più avere, sotto la guida di Prodi, una maggioranza al Senato. Non a caso fanno rimpiangere Agostino Depretis supplicando questo o quell'esponente di centrodestra di fare il salto della quaglia e passare dalla loro parte. Ma hanno ricevuto finora rifiuti indignati perché nessuno, siamo giusti, ha interesse a salire su una zattera in procinto di affondare.
A lume di logica, perciò, Prodi sembra avere i giorni contati. Inutile sperare che Napolitano lo rinvii alle Camere per verificare se goda ancora della loro fiducia, perché un sostanziale rinvio parlamentare c'è già stato mercoledì. E si è concluso a Palazzo Madama con un patatrac. Dopo lo smacco subito da Parisi al Senato e l'ennesimo vertice del centrosinistra, che avrebbe dovuto rimetterne assieme i cocci. E, per dirla con linguaggio curiale, ne bis in idem. Un reincarico a Prodi, del resto, ha il piombo nelle ali. A parte la maggioranza introvabile, e scusate se è poco, le dodici condizioni dodici partorite dalle fervide menti di Lor signori non sono altro che lo scipito indice di un libro dei sogni. Come il solito Fanfani definì una volta le dichiarazioni programmatiche di un governo.
Un indice, per di più, pieno di vuoto. Tra le tante lacune, vedi caso, ci sono i Dico. E interpretabile in mille maniere diverse. Con il risultato scontato che presto avremmo la riedizione dei ladri di Pisa. Tornati al potere, continuerebbero a litigare sulla spartizione del bottino. Prodi poi indossa le penne del pavone quando pretende di atteggiarsi a cancelliere tedesco o a premier britannico, ossia a primus solus. Quasi che non avesse detto peste e corna della riforma costituzionale della Casa delle libertà, che si proponeva di rimpannucciare l'inquilino di Palazzo Chigi. Penne del pavone che, in omaggio alla collegialità, verrebbero strappate a una a una dai suoi infidi sodali.
Comunque vadano le cose, Prodi è ormai al capolinea. E nuovi scenari si profilano dietro l'angolo.
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