Politica

Quei dubbi dei tedeschi su Adriano

Quei dubbi dei tedeschi su Adriano

Caro direttore, da quando è andato in onda lo show di Celentano, non vivo più. Come sai trascorro gran parte dell'anno a Berlino dove Adriano Celentano è popolarissimo, quasi quanto Trapattoni. In più i tedeschi hanno l'abitudine di prendere tutto e tutti sul serio. Anche il molleggiato. E così le gravi denunce contenute in Rockpolitik hanno avuto qui un'ampia eco. Ne hanno parlato giornali, tv, agenzie, siti internet. E anche io sono rimasto coinvolto. Molti colleghi che si occupano di cose italiane o di libertà di stampa mi hanno telefonato per avere chiarimenti. Soprattutto volevano sapere in base a quali criteri era stata stilata la graduatoria che vede l'Italia collocata tra i Paesi dove più forti sono le restrizioni alla libertà di espressione, più forti che in Paesi del terzo e quarto mondo come il Ghana e il Benin. Me la sono cavata telefonando alla Rai dove un funzionario gentilissimo (voglio citarlo: Dicaro) mi ha dato i numeri di telefono di Freedom House, autrice della classifica, che ho passato ai miei allarmati interlocutori tedeschi. Pensavo che tutto finisse lì. E invece era solo l'inizio di un tormentone che ancora continua. Avendo saputo da Freedom House che il pessimo piazzamento dell'Italia era dovuto all'arresto di Lino Jannuzzi, i miei interlocutori mi ritelefonano per sapere chi è Jannuzzi.
Spiego che è una grande firma della carta stampata, che è anche un senatore del partito di Berlusconi e che è stato condannato per alcuni articoli ritenuti diffamanti. A questo punto gli interlocutori entrano in tilt. Non capiscono come mai Celentano nel suo show abbia messo sotto accusa il governo Berlusconi quando il giornalista colpito è proprio un esponente del partito di Berlusconi. Rispondo che le accuse di Celentano si basano soprattutto sul caso Biagi-Santoro. Ma i tedeschi sono tedeschi e procedono geometricamente. Mi fanno osservare che la notizia «nuova» è che un Paese dell'Unione Europea, l'Italia, è stato retrocesso tra i più intolleranti verso la libertà di stampa e che la retrocessione è avvenuta quest'anno mentre il caso Biagi-Santoro è di tre anni fa. Replico che sì, in effetti, non c'è nulla di nuovo nelle accuse di Celentano e che lo show è la solita ribollita che viene riproposta sotto varie forme da quattro anni a questa parte. Ma a questo punto un interlocutore mi manda kappaò. Se la solita ribollita viene riproposta sistematicamente e in più sul canale più importante della Tv pubblica, dov'è la censura, dove sono le restrizioni? Un collega del Berliner Zeitung, quotidiano della sinistra berlinese, dovendo scrivere un pezzo sullo show di Celentano, mi chiede di aiutarlo a raccogliere qualche informazione in più. Acconsento e telefono alla casa di produzione di Celentano dove accolgono con euforia le mie segnalazioni sull'eco dello show nei mass media tedeschi. Quanto alle curiosità dei miei colleghi berlinesi, mi invitano, con tono gentile e simpatico, ad una lettura meno «notarile» del programma e mi ricordano che Adriano, essendo un artista, può permettersi di esprimersi attraverso metafore, paradossi, licenze poetiche. Perfettamente d'accordo sui lussi cui hanno diritto gli artisti. Ma come spiegarlo ai notarili colleghi tedeschi? Quelli non si accontentano delle licenze poetiche, vogliono fatti che non si contraddicano. Meglio non spiegarlo.
Ma questa che ti sto raccontando, caro direttore, è solo una delle scocciature che mi ha provocato il molleggiato. Sabato pomeriggio un circolo studentesco della Frei Universität ha in programma, già da tempo, un dibattito sul ruolo delle Tv pubbliche e un amico, lettore di italiano, insiste perché ci sia anch'io. Faccio di tutto per sottrarmi perché sulla Rai ho idee tutte mie e scandalose (nonostante l'innegabile legame con il potere politico che esiste da sempre, trovo che la Rai di oggi è un paradiso di libertà rispetto alla Rai dove ho vissuto io tra il ’60 e il 2000 e quanto alle ingerenze politiche mi risulta che spesso sono sollecitate dagli stessi giornalisti che poi si proclamano martiri). Ma il lettore di italiano insiste e finisco per accettare. Errore madornale perché ancora una volta non ho saputo rispondere alle domande dei miei interlocutori. Per la verità me la sono cavata bene su Biagi e Santoro, giustamente tirati subito in ballo. Faccio presente che alla Zdf e alla Ard (le due reti pubbliche) esistono regole di ferro che impongono l'imparzialità a giornalisti e programmisti. E ricordo il caso di Ulrich Wickert, il Bruno Vespa tedesco. Il bravissimo Wickert, all'indomani dell'11 settembre, sul settimanale Max paragonò Bush a Bin Laden «perché entrambi pensano di risolvere i problemi con la forza». Fu subito chiamato dal Presidente dell'Ard, Fritz Pleitgen, il quale gli fece presente che era libero di mettere Bush e Bin Laden sullo stesso piano, ma in questo caso doveva rinunciare al suo ruolo di giornalista della Tv pubblica che è tenuto a rispettare le regole di imparzialità anche quando scrive sui giornali. Messo davanti all'alternativa tra andarsene o scusarsi, Wickert si scusò durante un telegiornale di punta. Ma dopo questa breve esposizione, ecco che incomincia la tortura delle domande. Come spiego che dopo il bando dalla Rai, Biagi e Santoro non hanno trovato lavoro in altre testate o reti tv? Forse ha ragione Celentano quando dice che in Italia non c'è libertà di espressione? Ovviamente dico che non è così tanto è vero che Biagi continua a scrivere per il più prestigioso quotidiano del Paese e se appena volesse le reti private, che in Italia sono più di novecento, farebbero a gara per avere la sua presenza. Quanto a Santoro ammetto di non avere una risposta perché non continui la sua battaglia in una delle tante emittenti private come fanno molti suoi colleghi tedeschi che hanno lasciato polemicamente le reti pubbliche. Del resto lui stesso ha detto che quando lavorò per la più importante Tv privata, Mediaset, non subì mai censure. Per la verità una risposta l'avrei: credo che Santoro guardi al futuro e ritenga più redditizio insistere sul ruolo di martire.
Ma mi guardo bene dall'esternare il mio sospetto perché conosco i miei interlocutori tedeschi che sarebbero capaci di chiedermi di delineare la figura del martire nella società televisiva italiana. Esaurita la parte su Biagi-Santoro, arriva la domanda più difficile. Uno studente, mi chiede, con espressione divertita, se è vero, come ha scritto un giornale, che il direttore generale della Rai si è congratulato con Celentano in diretta per un programma in cui si mette sotto accusa, direttamente o indirettamente, la Rai. Rispondo che è vero. E come lo spiego? Altra figuraccia da parte mia perché devo ammettere che non ho una spiegazione. E leggo sul volto dei miei interlocutori un'espressione di delusione e disorientamento. Una studentessa che studia per diventare giornalista mi chiede se è vero che nella Tv pubblica italiana ci sono giornalisti che si lamentano perché l'azienda non li fa lavorare. Rispondo che sì è vero. E come mai? Dico che ci sono due spiegazioni: quella dell'azienda e quella dei giornalisti in questione. L'azienda sostiene che ci sono giornalisti che non riesce ad utilizzare perché le loro caratteristiche professionali non rispondono alle esigenze della programmazione. I giornalisti in questione dicono invece che non vengono utilizzati per le loro posizioni politiche. Penso di aver liquidato la domanda. Macché! La mia interlocutrice mi chiede perché i giornalisti in questione, se ritengono di avere ragione, non vanno a lavorare per altre reti o testate: sempre meglio che essere pagati per non fare niente. Rispondo che molti lo hanno fatto e con successo, ma non tutti. Ma anche questa risposta non convince. E a me non resta che constatare che è stato un errore accettare l'invito.

Tutta colpa del Molleggiato.

Commenti