«La psicanalisi è quella
malattia mentale
di cui ritiene di essere
la terapia»
Karl Kraus
«Che disastro». Spontaneo commento osservando cent’anni e più di psicanalisi. Sembra ne siano successe di tutti i colori, sia dal punto di vista teorico che - molto indicativo - da quello pratico. La psicanalisi ha certo ampliato il vocabolario interiore con cui le persone si osservano e tentano di capirsi, ma sono ormai numerosi i libri che indagano, talora con acrimonia altre volte con sofferta delusione, tutte le cattive strade, i fallimenti terapeutici ed esistenziali, le trasgressioni, gli alibi e le deliberate spietatezze degli psicanalisti. Uno di questi saggi è in uscita tra pochi giorni e riguarda il caso più fiammeggiante del Novecento: Sua Maestà Masud Khan (Raffaello Cortina editore), il «principe degli psicanalisti». Masud Khan, nobile miliardario pakistano, curò (o non curò) il jet-set della swinging London, tra scandali, perversioni e interessati sbagli professionali commessi in piena, lucidissima coscienza. Proprio da chi, almeno un poco più dei pazienti, dovrebbe avere, insieme alla conoscenza delle passioni, anche una relativa se non stoica sobrietà.
Ma non la ebbe nemmeno uno degli ultimi grandi protagonisti - anche in senso culturale - della psicanalisi francese, Jacques Lacan, o «char-Lacan» come lo chiamavano con malizia i parigini. La sua influenza fu enorme: penetrava con magnetismo nell’anima di allievi, intellettuali, pazienti, amici, e la sua dottrina era estremamente virale, proprio a livello inconscio. I suoi discepoli non potevano pronunciare una frase senza storcerla in ossequio alla «interpretosi» linguistica del Maestro: «facciamo una gita in la-canpagna», e via allucinando; dietro o a lato di ogni parola ce n’era sempre un’altra. Ritroviamo tutto questo clima surriscaldato del pensiero e del linguaggio in tantissimi saggi e memorie di quel periodo, come Vita e leggenda di Jacques Lacan di Catherine Clement e Sul lettino di Lacan: romanzo di un’analisi di Pierre Rey. Bordate alla teoria lacaniana, invece, arrivarono già all’epoca due saggi che meriterebbero immediata traduzione o ristampa, e che ancora oggi procurano, durante la lettura, la sensazione di stare assumendo una medicina spirituale: Un destin si funeste di Francois Roustang e Lo psicanalismo di Robert Castel. Esistono anche alcuni saggi dedicati propriamente al Lacan «falsario» o a quello che, all’inizio della sua carriera, prese in cura una certa Marguerite Pantaine e ci fece sopra la sua tesi in medicina sulla psicosi paranoica. La donna divenne celebre nella letteratura clinica come «caso Aimée». Niente di male; ma anni più tardi Lacan prende in analisi un certo Didier Anzieu, facendo finta di non sapere chi sia. Lo sapeva benissimo: era il figlio di quella Marguerite che l’aveva reso celebre, solo che il paziente dovette scoprirlo da solo, a cura inoltrata, correndo in biblioteca a leggersi quello che il suo analista aveva scritto di sua madre.
Lacan, intanto, riceveva in studio, sotto lo sguardo attonito e ammirato dei pazienti, le sue «donne», pittate e odorose come prostitute: «parevano bambole», raccontò l’analizzando Pierre Rey, che andò a letto con una di loro scatenando la gelosia del Maestro. La moglie e le amanti ufficiali di Lacan erano comunque al corrente di questo andirivieni. Le sue sedute di analisi avevano durata variabile, pur essendo tutte accomunate dall’essere costosissime: alcune, però, duravano non più di cinque minuti. Molti, pur di continuare la cura, che era quasi uno status symbol intellettuale, chiedevano prestiti consistenti, rinunciando magari a comprarsi casa. Lacan divenne così milionario, titolare di appartamenti, conti correnti, collezioni d’arte (pregava i pazienti, con bramosia, se potessero «per caso cedergli» questo o quel pezzo pregiato), e alla fine prese a nascondere lingotti d’oro nelle poltrone del salotto. Negli ultimi anni passava intere giornate come in trance intrecciando cordine che tirava fuori in tutte le occasioni, anche quelle ufficiali: i famosi nodi borromei con cui inventariava le strutture della psiche.
Abbastanza spesso, affiorava in questo clima surreale, una tragedia vera. Nel 1977 l’analista di punta della scuola lacaniana, Juliette Labin, si uccise in uno chalet di montagna, con un cocktail di medicinali da lei preparato. Fu un suicidio del tutto cerebrale, dovuto in parte alla dottrina di Lacan vissuta troppo dogmaticamente, in parte al clima creato dai colleghi troppo ortodossi nei confronti dell’ultra-ortodosso «ascolto dell’inconscio» della Labin. Il caso fu smontato a dovere, usando la pratica tipica di certi regimi totalitari verso i dissidenti: la vittima fu accusata di malattia mentale e di ossessività.
Non fu l’unico suicidio «eccellente» della psicanalisi, che ne è particolarmente ricca, come ha mostrato Luciano Mecacci nel suo ormai celebre Il caso Marilyn M. e altri disastri della psicanalisi. È rimasto famoso quello di Victor Tausk: fu amante di Lou von Salomé, pseudo-psicanalista amante di tutti, che non lo trattò granché bene, ma anche paziente e poi allievo di un amico di lei, Sigmund Freud, che forse lo trattò anche peggio, per invidia o gelosia. A 40 anni, al termine di complicate vicende che coinvolsero l’intero entourage freudiano, Tausk si uccise sparandosi e impiccandosi allo stesso tempo, malmenato nell’animo dal progressivo isolamento dei colleghi. Freud, in privato, lo screditò. Lo stesso Freud che, in contraddizione con la propria disciplina e noncurante dei possibili danni psicologici, psicoanalizzò sua figlia Anna, come poi fecero con i propri figli Jung e Melanie Klein. È il tipico incrociarsi di terapia, rapporti di parentela, d’amore, di amicizia e professionali, che ha reso piuttosto terremotato e inaffidabile l’universo della psicanalisi del secolo scorso.
Non va meglio con Bruno Bettelheim: deportato a Dachau e Buchenwald, nella sua Orthogenic School di Chicago, creata per curare disturbi mentali infantili, ricostruì quel clima di terrore che probabilmente portava ancora irrisolto nell’animo. Numerosi suoi ex-pazienti, diventati adulti, hanno poi testimoniato sulla vera atmosfera che si respirava in quella clinica e vicino a uno dei più famosi analisti del mondo. Ma il loro «aguzzino» si era già suicidato, nel 1990, infilandosi un sacchetto di plastica in testa.
Tutte queste commistioni selvagge - da parte di grandi personalità - di affettività, lavoro, desideri erotici, indulgenze, revisionismi e falsi accademici, sono la cosa più sconcertante della storia della psicanalisi, poiché sembrano dar ragione all’alibi per eccellenza che Masud Khan si raccontava: «Che danni si procurano alle vite altrui brancolando in cerca della verità della propria vita. Ma la carneficina è la legge di natura». E ancora: «Solo con l’uso da parte di esseri umani di altri esseri umani si può ottenere una corretta definizione dell’esperienza di sé».
Con la diffusione, oggi, del fenotipo intellettuale e sentimentale di Masud Khan - si veda per esempio la letteratura o le altre «professioni culturali» intraprese, talora con intelligenza simpatica e/o trasgressiva, solo per mondanità o per darsi una carezza sull’anima, ma senza vero amore per i contenuti e per la tradizione storica che li ha creati e conservati - queste ciniche parole suonano molto attuali.
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