Quei pentimenti tardivi sotto la Quercia

Quei pentimenti tardivi sotto la Quercia

Pier Luigi Battista parla di «bulimia del pentimento» a proposito di quegli esponenti del Pci che da qualche tempo, dacché il comunismo è scomparso dalle loro bandiere, fanno mostra di rivedere le loro posizioni, celebrando autocritiche tardive su argomenti sui quali, a suo tempo, non mostrarono dubbi di sorta. Una saga del pentimento ci ha sommersi qualche mese fa celebrandosi il cinquantenario della rivolta d’Ungheria che nel 1956 il partito di Togliatti condannò drasticamente, cacciando dal partito i pochi che non erano d’accordo.
È la volta, poi, del «caso Moro». Ne parlano prima Fassino, poi Ingrao. Forse era possibile, dice Fassino, e più o meno ripete Ingrao, tentare di salvare la vita di Moro senza tradire con ciò la lotta al terrorismo. E però quelli che, come chi scrive, vissero quei giorni ricordano bene come il rifiuto di ogni tentativo di salvare la vita di Moro non fu il risultato di un conflitto fra la pietà per l’uomo e la ragion di Stato quanto del disegno di saldare col «partito della fermezza» una alleanza posta in dubbio da Craxi, da Pannella, da una parte della Dc indotta anch’essa ad abbandonare Moro alla sua sorte.
Ho ascoltato nei giorni scorsi a Radio Radicale una testimonianza di Pasquale Squitieri il quale, amico di famiglia di Leone, una amicizia che risaliva al padre Mario, avvocato illustre anche lui del Foro di Napoli, si recò la sera stessa delle dimissioni di Leone nella sua casa di Formello, raccogliendo gli sfoghi amari di un uomo umiliato, e distrutto, a poche ore dall’abbandono forzoso del Quirinale. Fu, quell’abbandono, il frutto di una persecuzione mediatica alla quale la Giustizia, coi processi intentati da Leone verso i suoi persecutori, pose tardivo rimedio. Il vecchio presidente attribuiva la sua sorte al fatto di essersi dichiarato disposto, nell’estremo tentativo di salvare la vita di Moro, a firmare la grazia di una terrorista, la Besuschio, gravemente malata e non accusata di reati di sangue. Quel gesto gli fu impedito, spiegò Leone, da due politici che si recarono a fargli visita per dissuaderlo con argomenti che dovettero sembrare pesanti al vecchio presidente se egli spiegò al suo visitatore che si era trattato di salvare la vita e l’avvenire dei figli. Della intenzione di firmare la grazia per la terrorista, Leone parlò a suo tempo con la signora Moro dicendo di essere stato fermato «con la penna in mano» da un gesto che forse avrebbe potuto dare una svolta diversa al dramma di Moro.
La persecuzione di Leone continuò dopo di allora, il suo abbandono del Quirinale gli venne chiesto da due politici, uno del Pci, l’altro della Dc, i quali si premurarono di spiegare che non c’erano ragioni reali per chiedere il suo sacrificio, ma che «dato il clima creatosi attorno al Quirinale» era meglio porvi fine con un atto «doloroso ma salutare per il Paese».
Mi occupai in seguito, dedicandogli fra l’altro il capitolo di un libro su quegli anni, della vicenda Leone. Mi recai più volte nella casa del presidente col quale parlammo a lungo di quei fatti. La testimonianza di Squitieri aggiunge solo una pennellata di crudeltà esercitata in danno di un uomo mite come fu Leone, vittima, lui e la sua famiglia, di giorni e tempi terribili. Aggiungo che Giuseppe Saragat a chi gli chiese un giorno come avrebbe reagito al posto di Leone rispose: «Avrei chiamato i corazzieri, e avrei fatto arrestare quei signori per attentato alla Costituzione».
Mentre scrivo queste cronache leggo che Violante ritiene sia stato un errore avere prestato mano alla persecuzione dei socialisti nei primi anni ’90, e aver fatto di Craxi «un capro espiatorio». E ciò, a tanti anni dalla morte di Craxi in esilio ad Hammamet. Si tratta di parole incredibili in chi, come Violante, non fu certo parte minore di una operazione che, oltre al resto, lasciò un segno incancellabile nella sinistra italiana.
a.

gismondi@tin.it

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