Il «Dalemone» era quella specie di tabellone colorato sul quale Sabina Guzzanti, nei panni dell’allora segretario del Pds, componeva le più diaboliche e intricate strategie muovendo compulsivamente alcune fiches colorate. Il risultato, inesorabilmente, era un gran pasticcio: e così il D’Alema-Nosferatu trascolorava, nel corso dello sketch, in un più innocuo D’Alema-Paperino.
Sono passati più di dieci anni, e la leggenda nera dalemiana - se così possiamo chiamarla - non fa che crescere e conquistare la fantasia dell’opinione pubblica. Percepito di volta in volta (e qualche volta simultaneamente) come il più abile costruttore di strategie e il più pervicace distruttore di realtà, D’Alema è stato accusato nel corso degli anni di aver fatto fuori prima Natta, poi Occhetto e infine Prodi; di aver dapprima inventato e poco dopo affossato l’Ulivo; di aver organizzato il «ribaltone» contro Berlusconi nel ’94 e di averlo salvato con la Bicamerale nel ’96; di esser stato il più fiero e settario degli antisocialisti, e di essere oggi un craxiano senza vergogna; di aver confidato all’ambasciatore americano opinioni sulla magistratura degne del più sfegatato garantista, e di aver architettato con la candidatura al Mugello quel capolavoro di giustizialismo politico che è la discesa in campo di Di Pietro. Se non ci fosse D’Alema, ci annoieremmo a morte.
E così neppure oggi, nel giorno della chiusura delle indagini preliminari sul caso Tarantini, poteva mancare alle cronache il nome dell’ex presidente del Consiglio. Fra gli indagati c’è infatti l’avvocato Salvatore Castellaneta, accusato di aver «reclutato» insieme a Tarantini alcune ragazze, fra cui Patrizia D’Addario, poi finite a palazzo Grazioli. Fin qui, non ci sarebbe niente da eccepire. Senonché il Castellaneta (presunto) reclutatore di escort è anche il padrone della masseria in cui è ospite D’Alema quando annuncia dagli schermi di In mezz’ora che «la vicenda italiana potrà conoscere delle scosse». È il 14 giugno, e tre giorni dopo il Corriere pubblica un’intervista esclusiva alla D’Addario: «Incontri e candidature. Ecco la mia verità».
Un caso, una coincidenza fortunata (o sfortunata, se vista oggi)? O magari un semplice scambio di battute, che tale doveva rimanere e che invece, riproposto in tv, ha innescato una valanga? Già allora, infatti, in molti si chiesero a che cosa alludesse D’Alema, e quali fossero le sue fonti. L’interessato spiegò che si trattava di un’analisi politica, non giudiziaria, e che le «scosse» dovevano intendersi, appunto, in senso politico.
Se furono in pochi a crederci, e se oggi l’interrogativo si ripropone, è precisamente perché D’Alema è D’Alema. È pieno di politici che raccontano gli scenari più improbabili a qualche giornalista credulone, ma nessuno di loro, giustamente, viene preso troppo sul serio. Con D’Alema è diverso. Perché di lui si presume, s’immagina, si teme che effettivamente sappia qualche cosa in più. Il che in parte è senz’altro vero: un ex presidente del Consiglio, ex ministro degli Esteri e attuale presidente del Comitato di controllo sui servizi segreti è sicuramente più informato della maggior parte dei cittadini italiani.
Ma è anche vero che, paradossalmente, esibire una conoscenza particolare equivale a dissiparla: la «scossa», una volta annunciata, diventa, come tutto il resto, gossip politico e polemica spicciola.
Resta il fatto che qualcosa di andreottiano - nel senso, diciamo così, mitologico del termine - sembra avvolgerlo e, persino, affascinarlo. D’Alema condivide con Andreotti un’idea del potere trasversale e trascendente i partiti: è un’idea personale e reticolare, feudale ma anche modernissima, che pone al centro le relazioni fra le persone, lo scambio di informazioni, la continuità dei rapporti e degli equilibri, la rassicurazione reciproca.
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