Quel genio cinico che sfornava capolavori a raffica

Un secolo fa nasceva il regista di «A qualcuno piace caldo». Ebreo, fuggì dalla Germania nazista e a Hollywood vinse due Oscar

Massimo Bertarelli

Il più bel regalo per i suoi cent’anni, festeggiati lassù, ben sopra Hollywood, gliel’ha fatto il concittadino, coetaneo e collega Vincent Sherman. Morendo. Ventisette giorni prima dello storico traguardo. Non è certo un segreto che Billy Wilder fosse di un cinismo senza pari, come molti dei suoi impagabili personaggi. Uno per tutti il Charles Tatum di L’asso nella manica, interpretato da Kirk Douglas, guarda caso un giornalista nella finzione, come nella realtà era stato Wilder negli anni verdi, prima a Vienna e poi a Berlino. Bene, in quel film del 1951, Douglas agisce come forse nemmeno Wilder si sarebbe comportato: scoperto che un giovane messicano è rimasto intrappolato in una cava, fa di tutto per rallentare i soccorsi e preparare un drammatico articolo in esclusiva. Fiutando che lo scoop può fruttare molti quattrini, coinvolge anche la moglie della (quasi) vittima: corri in chiesa e fatti vedere mentre preghi. E lei, degna del temporaneo compare: in ginocchio potrei rovinarmi le calze.
Era piuttosto incerto sul proprio destino il giovane Wilder, nato il 22 giugno 1906 a Sucha, allora impero austroungarico e oggi Polonia. La famiglia, di agiati albergatori ebrei, lo voleva avvocato, lui preferì trasferirsi a Berlino, scegliendo le redazioni dei giornali, frequentate peraltro di malavoglia. Perduta presto la scrivania, si trasformò in ballerino, portando in pista, naturalmente dietro compenso, signore non più giovani e si presume di ridotta avvenenza. La leggenda narra che, come è buona regola dei grandi in gestazione, di pasti ne saltò parecchi. Si dice che la mattina presto si sedesse a un caffè, a stomaco rigorosamente vuoto dal giorno prima, e ordinasse un’abbondante colazione. Guai se entro mezzogiorno non fosse passata un’anima pia disposta a presentarsi alla cassa al suo posto. Be’, si vede che a Berlino erano tutti angeli. Finché dopo mesi di braccio di ferro con la sorte, improvvisa arrivò la folgorazione, sotto forma della prima sceneggiatura. Meschen am Sonntag il titolo del film, il tedesco Robert Siodmak il regista, 1929 l’anno.
Tra l’avvento di Hitler e l’esilio volontario passarono soltanto pochi mesi, così Billy Wilder nel 1933 si ritrovò a Parigi e l’anno seguente negli Stati Uniti. L’inglese in oltre sessant’anni non lo imparerà mai bene, comunque senza riuscire a perdere quell’inflessione da crucco che lo trasformava in una caricatura. Lui che soleva dire, scherzando, ma non troppo: «Detesto essere preso sul serio, non sopporto di non essere preso sul serio».
Anche i geni devono farsi le ossa, quindi le prime regie del futuro numero uno del cinema (con tante scuse a Charlie Chaplin) come Frutto proibito e I cinque segreti del deserto non si possono catalogare tra i capolavori. Ma al terzo ecco il botto: La fiamma del peccato, anno 1944, alla faccia della guerra mondiale, è un giallo da far schiattare d’invidia Hitchcock. L’anno successivo incamera quattro Oscar (film, regia, sceneggiatura e il protagonista Ray Milland) con Giorni perduti. A trentanove anni è già un autore con la maiuscola. Dotato di un talento inarrivabile, che gli consente di primeggiare in qualunque genere, fantascienza e western esclusi, grazie anche a due maghi della sceneggiatura come Charles Brackett e Isidore Diamond. Nel dramma non teme confronti: Viale del tramonto (1950) con la superba Gloria Swanson e William Holden e L’asso nella manica sarebbero bastati a far vivere di rendita per l’eternità qualsiasi cineasta. Nel giallo nemmeno: oltre a La fiamma del peccato, c’è Testimone d’accusa del 1957, con il trio Marlene Dietrich, Charles Laughton e Tyrone Power. Se i primi due si stuzzicano sui riconosciuti livelli d’eccellenza, è Power la sorpresa. Perbacco che attore, al guinzaglio di Wilder. Allora non è soltanto il padre di Romina.
E che dire di Stalag 17, un thriller del 1953 ambientato in un campo di concentramento con un Holden da Oscar? Ma, come tutti sanno, il regno di Wilder è la commedia. Sabrina, Quando la moglie è in vacanza, A qualcuno piace caldo, L’appartamento (secondo e ultimo Oscar per la regia), Irma la dolce, Prima pagina, girati in un ventennio, tra il 1954 e il 1974, sono sei capolavori dell’umorismo in guanti bianchi. Una valanga di scene irresistibili, una grandinata di battute da riempire un’enciclopedia. Ovvio che è più facile fare grandi film con gente come Marilyn Monroe, Humphrey Bogart, Walter Matthau, Audrey Hepburn, Jack Lemmon, Shirley MacLaine. Ma i divi, anche se sono stelle, non brillano di luce propria, se mancano i copioni e se dietro la macchina da presa non ci sono tipetti tosti, come quello scorbutico omino con gli occhiali.
Anche i film cosiddetti minori sono pur sempre gustosi, per esempio Uno, due, tre (1961), uno sberleffo all’eterno dilemma comunismo-capitalismo. A proposito, così si definiva Wilder, che nel frattempo aveva preso la cittadinanza statunitense: «Io sono americano, democratico, liberale, sionista, capitalista, cinico e sentimentale».

La storia non riferisce se si arrabbiò, come avrebbe dovuto, con i titolisti italiani che gli tradussero The Fortune Cookie (1966) Non per soldi... ma per denaro e Avanti! (1972) Cosa è successo tra mio padre e tua madre. Niente di più probabile con il caratterino che si ritrovava. Ma in fondo impossibile per un mostro d’(auto)ironia.

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