Partiamo da un dato. La riforma delle pensioni varata dal governo Berlusconi è un decisivo passo in avanti per la sostenibilità del sistema previdenziale italiano. Alza, infatti, l’età pensionabile in maniera graduale dopo lo scalone del 31 dicembre 2007 che giunge a 62 anni dopo il 2011. I sindacati sono stati contrari ma nessuno è sceso in piazza. Il centrosinistra è invece allo sbando sulle quattro questioni in discussione: a) la necessità di un ulteriore aumento dell’età pensionabile; b) la perdita del potere di acquisto delle pensioni e le difficoltà previdenziali del mondo giovanile; c) un più decisivo ruolo della previdenza complementare; d) la modifica dei cosiddetti coefficienti di trasformazione. Quattro questioni tra loro collegate. Impossibile risolverne qualcuna tralasciando le altre.
Partiamo dalla necessità di aumentare le pensioni più basse e di rendere possibile anche per i figli la costruzione di una propria pensione. Per centrare questi due obiettivi (pensionati poveri e giovani) servono molte risorse. Attualmente la spesa previdenziale supera il 15 per cento del Pil. Ancora troppo. Va accelerata, dunque, la riduzione della spesa pensionistica già avviata con la riforma Maroni. I due strumenti sono l’elevazione dell’età pensionabile e la modifica dei coefficienti di trasformazione. La prima è possibile salvaguardando i lavori veramente usuranti grazie all’allungamento della vita e al miglioramento della sua qualità. La seconda è già prevista dalla riforma Dini del ’95. Essa ridurrà ulteriormente le pensioni pubbliche nei prossimi decenni liberando così ingenti risorse. Questi due «sacrifici» saranno accettabili e condivisi sempre quando parte delle risorse liberate saranno utilizzate 1) per aumentare le pensioni più povere; 2) per favorire anche per i giovani la costruzione della propria posizione previdenziale; 3) per rendere più corposa la previdenza complementare. Aumentare le pensioni più basse significa togliere dalla povertà alcuni milioni di pensionati. Aiutare i giovani presuppone un intervento dello Stato con contributi figurativi per saldare tra loro periodi saltuari di lavoro entro un tetto predeterminato. La previdenza complementare va rafforzata perché tra venti anni chi andrà in pensione avrà un trattamento mensile inferiore al 50 per cento dell’ultimo stipendio.
Ma come si fa a rafforzare la previdenza complementare? Con una manovra semplice che costa poco (meno di 200 milioni l’anno) e che rappresenta lo scambio necessario per fare accettare le due prime modifiche (età pensionabile e coefficiente di trasformazione). Ad oggi i rendimenti del Tfr nei fondi pensione hanno una tassazione dell’11 per cento, appena un punto e mezzo in meno dei titoli di Stato che hanno dalla loro un rendimento certo. Questo prelievo fiscale va eliminato. In tal modo il montante contributivo su cui si calcolerà poi la pensione complementare aumenterà ogni anno di più. Il Tfr che resta nell’azienda, d’altronde, è un costo e non concorre alla massa imponibile e quindi non genera gettito tributario. Non si capisce perché una volta affidato il Tfr ai fondi pensione il suo rendimento debba avere una tassazione dell’11 per cento.
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