In quei giorni, tante, tantissime cose stavano accadendo a Budapest. Nikita Kruscev, nel XX congresso del Pcus, aveva condannato lo stalinismo, l'onda si era tramessa alle Repubbliche socialiste, in Polonia i primi fremiti, in Ungheria studenti, operai, braccianti erano scesi in piazza, l'ottobre era rosso di sangue e nero per l'arrivo dei carrarmati, venticinquemila, spediti da Mosca. Ferenc Puskas aveva ventinove anni, insieme con la sua Honved aveva già scritto la storia più illustre del calcio magiaro. E con la nazionale aveva fatto di più, sino alla finale mondiale, contro la Germania, persa sul campo e in farmacia. Quel giorno, la prima sconfitta in sei anni (dal Cinquanta al Cinquantasei), Puskas aveva una caviglia ferita. Il maggiore a cavallo era tondo nel fisico ma con un piede sinistro di seta e di acciaio insieme. Aveva vinto il titolo olimpico a Helsinki, aveva umiliato due volte l'Inghilterra, a Wembley 6 a 3, prima sconfitta sul suolo britannico dei maestri del football, aveva vinto quattro campionati d'Ungheria.
Ma in quella sera di Bruxelles doveva fare i conti con un'altra partita. L'Ungheria di Janos Kadar, imposto dall'Urss, non garantiva un'esistenza libera. Grosics, il portiere, Budai e altri tre dell'Honved decisero, dopo una notte di parole, birre, discussioni, litigi, di rientrare in Patria. Puskas pensò a sua moglie, alla figlia, scelse di restare. La Fifa lo sospese per diciotto mesi, Ferenc aveva amici spagnoli, amici austriaci, era cittadino di un'Europa con le stimmate della guerra ma con la voglia di risorgere su quelle macerie. Anche con il football. L'Honved e l'Ungheria ci erano riuscite, grazie a Ferenc. Grazie a quelle amicizie, grazie ai marchi pagati, Puskas riuscì a farsi raggiungere, a Vienna, dalla famiglia. La Spagna di Franco non aveva cieli più limpidi ma il denaro correva veloce e quello del Real Madrid in prima corsia. Chi non aveva voglia di leggere Garcia Lorca sapeva, e sa ancora forse, che c'è il pallone delle merengues a distrarre da cose più grevi. Santiago Bernabeu aveva messo assieme una squadra di vedettes, se il Barcellona aveva tre ungheresi superbi, Laslo Kubala, Zoltan Czibor e Sandor Kocsis, perché non ne doveva avere uno, il più grande, il club del re? Emil Oestreicher, suo ex allenatore all'Honved, era già a Madrid, bastò una telefonata per convincere il ragazzo di Pest. Ferenc Puskas, alla fine, a trentadue anni sottoscrisse il contratto della sua vita. Il fisico non era quello propriamente di un atleta, la birra e altro avevano allargato di due taglie il suo giro vita. Bernabeu gli disse di dare un taglio ai vizi. Plaza Mayor e il Chamartin diventarono i suoi nuovi paradisi ma c'era un sospeso. Il Real Madrid non poté schierare Puskas nella finale contro il Reims. Si giocò a Stoccarda e Ferenc, dopo la finale mondiale del 1954, aveva detto, non insinuato ma proprio detto, che i tedeschi filavano in campo come topi siringati, drogati dunque. Meglio tenersi alla larga dalla Germania, dunque, niente finale, con il 10 va in campo Rial. Puskas prese l'appuntamento con i tedeschi per l'anno dopo, un'altra finale per il Real, a Glasgow, davanti a centotrentamila spettatori, gli spagnoli superarono l'Eintracht di Francoforte 7 a 3, Puskas ne segnò 4.
Per quattro volte vestì anche la camiseta rubia, la maglietta della nazionale spagnola, il suo totale di carriera dice, oltre ai quattro campionati magiari e al titolo olimpico, un record mondiale, 84 partite con la nazionale con 83 reti e poi cinque campionati spagnoli vinti, una coppa di Spagna e tre coppe dei Campioni. Giocava con i capelli impomatati di brillantina, la trippa gonfiava la maglietta ma il piede era sempre micidiale, la traiettoria del pallone perfetta, «baja izquierda, derecha medio», così diceva al portiere durante gli allenamenti e così calciava, in basso a sinistra, a destra a mezz'altezza.
Non gli bastava, provò a fare l'allenatore, in Grecia, portando il Panathinaikos alla finale dei Campioni persa contro l'Ajax a Londra e poi cercando altra gloria in Cile, con il Colo Colo.
Budapest gli riservò una partita giubileo, lo stadio porta il suo nome, Madrid lo aveva dimenticato, il nuovo Real degli affaristi intendo, non certo il popolo degli amanti del football.
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