Quell’estate maledetta del ’43 degna di un film

Una specie di fissazione. Ma di quelle buone e giuste. Riccardo Rossotto, avvocato, ha messo per iscritto i suoi ultimi studi su quella fetta di tempo che l’Italia visse sul finire della guerra, la seconda. Per la precisione l’estate violenta e ignobile del Quarantatre. Dopo Il gioco degli inganni, ancora per i tipi di Fogola La torre dell’Avorio, Rossotto prosegue il suo viaggio, stavolta con una appendice di cronaca dentro la storia, Estate 1943. Il gioco degli inganni continua, dunque un sequel, un altro atto di quei giorni maledetti ma con tutti i particolari, i documenti, quasi un soggetto cinematografico ideale e perfetto per un grande film se non fossimo in un Paese che procede tra vergogna e condanna, tra giustizialismo e negazionismo, bestemmiando per ideologia un periodo che andrebbe, invece, riletto così come si fa con gli anni di piombo, forse più comodi.
Rossotto non si schiera, anche questa è una notizia in un periodo nel quale la fazione distingue, fa spettacolo e, ahimè, politica. Rossotto esplora, raccoglie, elenca e narra, come una voce fuori campo: il tragitto che portò il corteo poco regale da Roma verso la costa adriatica. Il corteo delle Fiat 2800, i cento bagagli della famiglia reale, dei generali e degli altri fuggiaschi, Badoglio tremante per il freddo che garantisce: «Io sono piemontese e se dico una cosa è perché ne sono sicuro. Tra 15 giorni al più tardi saremo di ritorno», le strade di polvere, la sosta al Crecchio, i posti di blocco, la regina Elena che respinge l’idea di dividere la famiglia e si esprime in francese, Vittorio Emanuele che per tre volte dice «No» al principe Umberto che vorrebbe far ritorno, da solo, a Roma; il re che si rivolge al figlio con il «Tu» mentre Umberto deve rispondere con il «Voi» ma quando le parti si invertono Vittorio Emanuele spedisce un messaggio augurale al figlio dandogli del «Voi», per rispetto del ruolo.
Non mi sembra opportuno riassumere, come in un lancio di propaganda, il resto del racconto storico e mai romanzato. Il film delle pagine non ha un finale, il tulle di quella fuga avvolge e travolge, non emette sentenze.

Fu, è, sarà ancora la nostra Italia, riletta e rivissuta in chiave cronistica e giornalistica, da reporter sul luogo, un inviato speciale capace di osservare i flash back (il «lampo indietro», dovrei scrivere per seguire la lingua del tempo). Se ne scriverà ancora.

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